L’amore che ho di Paolo Licata è stato presentato al Torino Film Festival, nella sezione Zibaldone. Un film che ripercorre la vicenda esistenziale e la carriera di Rosa Balistreri, una delle più importanti voci del secolo scorso della musica popolare, e più nello specifico ancorata alla terra siciliana.
Una vita non facile, che nel 1990 arriva al suo termine, non prima però di aver intrapreso un viaggio – metafora dello stesso film – all’interno del proprio vissuto doloroso e insieme rivelatorio, interpretato da più attrici, che hanno impersonato Rosa nelle diverse fasi della sua vita. A partire dall’infanzia, con l’interpretazione di Martina Ziami, passando per la giovinezza con Anita Pomario, per arrivare alla vita adulta con Donatella Finocchiaro, fino alla maturità con la folgorante interpretazione di Lucia Sardo.
La riflessione sul tema della violenza, specie quella contro le donne
L’amore che ho è un film che riflette profondamente sul tema della violenza. L’aggressività e il male che prendono forma tra una scena e l’altra sono vecchi anni di soprusi e sofferenze, oltre ad essere espressione di volontà e meccanismi di dominio fortemente radicati nella società e nella terra nella quale la protagonista vive.
Fin da bambina, Rosa ha conosciuto il volto più duro della vita: la fatica per riuscire a mangiare qualcosa, la figura di un padre violento, una madre succube e priva di una propria identità personale. La violenza nel film di Paolo Licata è in primis un fatto culturale, figlia di una povertà educativa e di conseguenza intergenerazionale. Si tratta, in aggiunta, di un trauma che viene tramandato di madre in figlia, in un circolo vizioso doloroso che diventa visibile nei lividi di cui tutte le donne di questo film portano i segni. Che siano Rosa, la sorella Maria, e infine la figlia Angela.
In particolar modo, L’amore che ho riflette sul tema della violenza sulle donne. Questa forma di violenza è rappresentata dalla regia di Licata in modo affatto edulcorata, anzi nella sua forma più dura e in certi momenti del film anche truce. Lo spettatore può toccare con mano e riconoscere la condizione sociale e culturale della donna nella Sicilia degli anni Quaranta del secolo scorso: la loro dipendenza, oltre che economica, emotiva, e sociale, dagli uomini e la loro impossibilità di fuggire da un microcosmo tutt’intorno che se non perpetrava la violenza, certamente la legittimava. Eppure un tratto di novità c’è ed è particolarmente interessante: non si tratta, in tutti i casi, di una violenza che riceve una risposta passiva. Le donne reagiscono, in virtù di una propria specifica volontà, se non ancora segno di emancipazione sociale e culturale, sicuramente personale.
Il personaggio di Rosa
Il personaggio di Rosa, in questo senso è emblematico. Rosa subisce violenza, ma la replica anche. Questa donna in lotta con il maschile che fin da bambina ha visto nei suoi lati più oscuri, non si piega. È lei che attenta alla vita di suo marito per difesa; è ancora lei che letteralmente conficca una forchetta nella mano del cognato, quando si accorge che picchia la sorella. Ed è sempre lei a sfidare il padre e le convenzioni di un mondo asfittico e chiuso, quando continua a cantare, nonostante tutto. Nonostante i pettegolezzi e le maldicenze del suo paese.
Rosa reagisce con forza ai soprusi e alla violenza, proseguendo per la sua strada e seguendo le sue passioni, così da rappresentare, a tutti gli effetti, un valido esempio di femminismo ante litteram.
“Io non sono una cantante, sono un’attivista che fa comizi attraverso la chitarra”
Il ruolo benefico della musica
L’amore che ho ha un’altra grande protagonista, a parte Rosa Balistreri: la sua musica. Rosa è affascinata, attratta dalla musica, fin da quando è una bambina. Fin da quando, cioè, per la strade di Licata sente e vede i cantastorie che intonano melodie. Non può resistere a questo richiamo, che la fa sua, fin dalla più tenera età.
La musica in quei momenti dolorosi, di privazione e violenza familiare, è un rifugio per la piccola Rosa, che si difende con essa e solo attraverso questo scudo può crescere e diventare grande. Comincia a cantare nelle strade del suo paese, quando vende la frutta usando un’intonazione melodica dell’invito a comprare tutta personale. Attraverso la musica, ancora, Rosa è in grado di chiamare vicino a sé le persone; è l’unico modo che ha imparato, da sola. Tramite questo mezzo è capace di parlare agli altri, di far emergere la propria interiorità e di attingere da essa, per gridare a tutto il mondo la sua protesta.
La musica per Rosa è certamente sinonimo di contrapposizione e insieme di presa di posizione contro le ingiustizie, di vario titolo, che in parte ha anche sicuramente subito, come persona e come donna. Ed è anche espressione di quella naturale inclinazione di un animo coraggioso e profondamente avverso alla violenza, che ha caratterizzato la protagonista fin dalla sua infanzia. Davanti alle ingiustizie, Rosa non è capace di stare in silenzio, e la musica in questo senso può parlare per e con lei.
Lo sguardo che dà vita ai ricordi
In L’amore che ho un ruolo molto importante è giocato dagli oggetti. Attraverso questi – che possono essere delle vecchie fotografie di famiglia delle quali Rosa non riesce a privarsi, ma anche un quadro regalatole dal pittore Renato Guttuso in giovinezza – è possibile evocare ricordi, che a loro volta rendono fattibile la rappresentazione dell’azione. In questo senso gli oggetti sono il motore narrativo del film di Licata.
Non solo, perché i ricordi sono sempre mediati dallo sguardo e dalle emozioni. Gli oggetti concreti sui quali la protagonista fissa il suo sguardo permettono l’entrata in scena del ricordo, che diventa visione, e che è sempre connotata da emozioni, perlopiù negative: dal disgusto, alla rabbia, fino alla paura. É attraverso queste stesse emozioni che gli eventi della vita di Rosa assumono una forma definita, e quindi solo in ultima battuta – alla fine di un processo di elaborazione del vissuto, che da emozione diventa immagine – possono godere di una rappresentazione al cinema.
Tutto ciò che Rosa vede da bambina, rimane impresso dentro di lei, ed emerge con violenza nella sua vita da adulta, che rimarrà di fatto costantemente segnata da quelle prime ferite e mancanze. Queste ultime sono certamente familiari, ma altrettanto sicuramente figlie di una società che della donna non aveva ancora saputo vedere, riconoscere e rispettare né il volto, né il cuore, ma solo la forma.