Higher than Acidic Clouds del regista iraniano Ali Asgari è approdato al Torino Film Festival nel tardo pomeriggio di sabato 23 novembre. Un’opera intima e delicata, che sembra sussurrare allo spettatore le proprie intenzioni narrative e la propria identità, oltre a rivelargli, con uno slancio di coraggiosa fiducia, una parte profonda di sé. Il film, infatti, segue le recenti vicende piuttosto problematiche, di scontro aperto, che il regista ha vissuto nel rapporto con il regime iraniano, all’indomani della presentazione a Cannes del suo film Kafka a Teheran.
Asgari, di ritorno nel suo Paese, è stato privato del suo telefono, del suo computer e ancora del suo passaporto – dunque della sua libertà – ma non ha smesso di fare film, e soprattutto di pensare ai film, scrivendoli invece nella propria mente, al ritmo di ricordi, immagini e idee. Higher than Acidic Clouds, infatti, come ha spiegato lo stesso regista presente in sala, non nasce con una sceneggiatura, ma dalla ferma volontà di raccontare e quindi comunicare ciò che egli stesso stava vivendo, prigioniero in casa sua, nella forma di un flusso di coscienza particolarmente travagliato. Un vero e proprio atto di resistenza e protesta tanto silenzioso, quanto rumoroso nella possibilità di parlare allo spettatore, ed essere, così, espressione fedele del concetto di condivisione.
“Mi dicono di non filmare, di non esistere, di non guardare, ma la mia immaginazione supera tutte le barriere”
Higher than Acidic Clouds: il ruolo dello spazio
Higher than Acidic Clouds è un film che guarda in alto, più nello specifico oltre le nuvole grigie e oltre Teheran, pur rimanendo ancorato a questa città. Risiede in alto lo spazio che Asgari vuole filmare, che vuole portare allo spettatore e dove, in qualche modo – anche ideale – desidera recarsi. La cinepresa spesso si concentra su riprese al cielo, ai tetti delle case, ai fili della luce, come a voler suggerire l’idea di uno sguardo fisso sull’oltre, specchio fedele dell’intenzione del regista di dirigersi – almeno con l’immaginazione – fuori dalla “gabbia”, che è diventata la sua abitazione.
Il protagonista del documentario, oltre che regista, è Asgari stesso, che si auto-filma, mettendo al centro la propria interiorità, eppure lo sguardo tra esterno ed interno è perfettamente equilibrato, grazie all’emersione di una profondità fatta di pensieri e parole, estremamente coinvolgente e densa. Dal basso, che è l’interiorità di un uomo – volente o nolente ancorato con i piedi per terra – fino all’alto, dei fili della luce e del cielo. Ciò che permette al regista di innalzarsi tra le nuvole, almeno metaforicamente, è proprio la sua ricchezza interiore che si traduce in racconto sicuramente in primis personale, perché è ciò che il regista sta vivendo in un dato momento della sua esistenza, ma che è un pretesto per mostrare il modus operandi una società che chiude e costringe, che minaccia e che incute paura, in molti dei suoi meccanismi di funzionamento.
La doppia veste di Teheran: prima e dopo
La grande protagonista in Higher than Acidic Clouds, a parte la vicenda esistenziale di Asgari, è senza dubbio la città di Teheran. É facile intuire, fin dalle prime battute del film, quanto il regista gli sia legato e quanto dolore provi nel presente tentativo di definire e di descrivere questa città, di cui distingue nettamente due fasi. Il prima, che coincide con l’infanzia del regista, e il dopo, che corrisponde alla sua maturità. Prima a Teheran c’erano i fiori, i colori, il cielo era azzurro e le case avevano tetti che sembrava potessero sfiorarlo, quel cielo, in tutta la sua limpidezza. Dopo, a Teheran regna la confusione: è grigia, schiacciata nella morsa di un inquinamento febbrile e abbandonata al degrado.
Teheran non è più la città dell’infanzia di Asgari, luogo nel quale il regista poteva specchiarsi e ritrovarsi. É diventata una città vuota, un nonluogo, priva di paesaggio e segnata da un’architettura senza identità: un’estranea agli occhi del regista, che vi si ritrova intrappolato, con il solo desiderio di evadere e di volare lontano. Un sogno ricorrente, quest’ultimo, per Asgari da bambino, di sorvolare la città con ali tutte sue e guardare per la prima volta quel luogo dall’alto. Se da bambino si trattava di un sogno, nel presente è diventata un’esigenza sofferta, perché volare non è più un desiderio astratto, è diventato un bisogno impellente, in un processo di disillusione dei propri ideali reso particolarmente evidente.
Che cos’è speranza: il ruolo centrale della famiglia
Asgari affida un ruolo decisivo all’interno di Higher than Acidic Clouds alla sua famiglia d’origine: la madre, le sorelle e il padre. E connette tali figure al sentimento della speranza, ancora una volta attraverso la rappresentazione – più che mai tangibile – di un proprio vissuto personale.
La famiglia del regista è più volta citata nel documentario, dapprima come protagonista assente, quando non può vedere i film di Ali in Iran e fisicamente separata da lui; poi presente, quando Asgari decide di filmare le sorelle e la madre per portarle direttamente in scena, in stretta connessione con la sua interiorità. In ogni caso tali figure incarnano bene l’idea della doppia faccia della stessa medaglia: da una parte una privazione, dall’altra un dono di sé, parallelismo del rapporto del regista con la propria terra d’origine, entità che dà e che toglie.
Una particolare attenzione viene però data alla figura del padre, un uomo che come ha spiegato lo stesso regista, è stato abituato unicamente alla sofferenza e al lavoro. Solo in punto di morte è riuscito a promettere al figlio un viaggio nel nord dell’Iran insieme, lui che non aveva mai viaggiato. E così è stato: questo dato di fatto ha incontrato il vissuto del regista, che ha elaborato la vicenda attraverso la propria sensibilità. Il padre ha fatto qualcosa che usciva fuori dalle sue abitudini, è riuscito a godersi un’esperienza che non avrebbe mai fatto e ha imparato qualcosa: questa è speranza.
Ecco un valido esempio di come Asgari riesca ad escludere la propria individualità intesa come sguardo unicamente su di sé, pur partendo dalla narrazione di un fatto strettamente personale, allargando quello stesso sguardo, prima alla figura del padre, e poi a un tema di portata e riflessione universale, come quello del significato del concetto di speranza.
Un film che abbraccia il pubblico e gli affida una parte di sé
La netta sensazione che si ha durante tutta la durata del documentario è di stare prendendo parte a un momento di riflessione corale, che parte necessariamente dal regista, ma riesce a coinvolgere a pieno lo spettatore. Quest’ultimo diventa così plurale, grazie all’ampio sguardo offerto da Asgari, su cose e sensazioni. Higher than Acidic Clouds parte da un’individualità ma solamente per arrivare a una molteplicità e risuonare, in maniera diversa, in ogni interiorità nella quale approda.
È parso, a fine proiezione, che quel film fosse stato di tutti o che almeno a tutti fosse arrivato. C’è chi in sala lo ha definito “un film recitato”, chi lo ha percepito come un lavoro “estremamente poetico” e chi ancora si è soffermato sul legame, intenso e pienamente vissuto, del regista con la madre, definendo tale film un atto d’amore nei confronti di questa donna.
Svariati punti di vista e risvolti, che – oltre ad essere un chiaro rimando ad un’opera umanamente autentica – delineano un ventaglio di emozioni e sensazioni. Queste creano un mosaico di colori vivi, espressione di speranza.