Marching in the Dark è un documentario del 2024 per la regia di Kinshuk Surjan, ennesimo strepitoso risultato di un cinema indiano da non sottovalutare (per approfondimenti ti consigliamo il nostro articolo).
In questo splendido ritratto di una piccola comunità di agricoltori indiani, il titolo non poteva che essere più descrittivo di così.
Se Émile Durkheim nel suo studio sul suicidio esaminò le cause che spesso portano le persone, nella maggior parte dei casi uomini, a commettere suicidio, qui ci si concentra su altro.
L’occhio cade non tanto su chi non c’è più ma su chi resta.
Le mogli ad aver perso marito o figlio per suicidio negli ultimi 20 anni, in India, sono state più di 400.000.
Un numero impressionante che si lascia dietro tantissimi dubbi e interrogativi sulle motivazioni degli uomini ma anche tanta preoccupazione sullo stato delle mogli.
Queste donne, infatti, molto spesso giovanissime, si ritrovano a dover affrontare una vita completamente nuova e priva di qualsiasi tipo di supporto.
A tal proposito è bene precisare che una delle cause più frequenti di suicidio è l’eccessiva pressione economica e psicologica che gli uomini, indebitati fino al collo, devono subire.
Va da sè che, una volta morto il debitore, tutti i suoi debiti ricadano sul suo parente più prossimo: la moglie.
Dalla gestione della casa e il mantenimento dei figli, passando per la ricerca difficilissima di un lavoro, arrivando alla grandissima sofferenza che si prova ad avere le macerie di una famiglia intera sulle proprie spalle, il buio sembra essere l’unica condizione possibile.
Eppure una luce in fondo al tunnel riescono a trovarla, forse perchè ne hanno bisogno o forse perchè è l’unica soluzione che hanno per continuare a restare a galla.
L’unione femminile
Le donne del villaggio preso d’esempio nel documentario sono l’esempio lampante di cosa voglia dire “l’unione fa la forza”.
Una dopo l’altra, passo dopo passo, tutte loro si ritrovano a dover reimparare a vivere e sopravvivere.
La figura centrale del documentario, nonostante si percepisca continuamente il senso di comunità e vicinanza, è Sanjeevani, una giovane vedova, attraverso i cui occhi compiamo un vero e proprio “viaggio nei sentimenti“.
Nel vedere uno sguardo perso e afflitto, con il susseguirsi delle sedute del gruppo per vedove di suicidio, scopriamo una nuova persona.
I suoi occhi, anche se pieni di lacrime, tornano vivi, così come il suo animo: inizia a confidarsi e confrontarsi con le altre donne, aiuta le mogli che hanno da poco perso il marito a non cadere nel vuoto che lei stessa ha conosciuto, pensa perfino a come potrebbe essere risposarsi.
Tutto anche grazie all’aiuto dello psicologo Milind Potdar.
Nonostante i mille sforzi e le mille consolazioni, però, una sola sembra la costante che spinge Sanjeevani e tutte le sue compagne a non mollare mai: i loro figli.
Loro sono sempre stati e continueranno sempre a essere la loro unica ragione per marciare sempre e comunque, anche nel buio più fitto.