September Says di Ariane Labed è approdato al Festival di cinema e donne di Firenze, degli ultimi giorni. Un film che racconta la storia di un legame tanto intimo quanto ambiguo e fonte di mistero, quale quello di due sorelle, che condividono molto di più della loro stanza da letto: amici, vestiti, spazi, sentimenti e decisioni. Insomma, tutta la loro esistenza.
Il film è un adattamento del romanzo di Daisy Johnson dal titolo Sisters.
Il confronto con il tema del corpo
Il corpo viene ripreso sovente nel lungometraggio di Labed, declinato in diverse forme: nudo, vestito, atletico, magro, desiderato, sorpreso e ancora immaginato. In tutte queste occasioni è sempre forza che permette la connessione tra le persone. Le due sorelle sono intimamente e corporeamente connesse: basta un fischio di September per richiamare all’attenzione la sorella, che pare non essere in grado di orientarsi nel mondo senza di lei. É sufficiente che September ordini alla sorella di fare qualcosa con il suo corpo, anche qualcosa che quel corpo lo metta in pericolo, e la ragazza esegue l’ordine. È infine ancora con il corpo che September controlla July, può bastare uno sguardo.
Non c’è confine che si traduca in limite nel film di Labed, per quanto concerne il corpo. Le due identità si fondono pericolosamente e danno vita ad un’unica persona: September che detiene il controllo di quasi ogni situazione. Anche quando July si sta per fare del male con un coltello, non è la mano di September che lo impugna, ma sono i suoi occhi e la sua volontà a determinare quell’azione. Al di là dell’intromissione del paranormale, September says riesce perfettamente a evocare il senso di estraneità dal proprio corpo che July prova, in virtù di un legame più che affettuoso, sicuramente asfissiante con una sorella che – lontana dall’essere complice – è invece padrona.
Un duo esclusivo: in scena il legame del ricatto
September e July fanno tutto insieme: vanno sulla stessa bicicletta a scuola, si depilano nella stessa vasca, si lavano insieme, mangiano insieme, guardano la tv insieme, e giocano insieme, in una dimensione ancora fortemente infantile. Escono insieme e conoscono unicamente le stesse persone. Il duo è esclusivo perché September e July hanno deciso di tagliare fuori il mondo intero attraverso il loro patto di sangue, per il quale una deve sempre seguire l’altra, ovunque vada.
Nessuno può raggiungere le due sorelle semplicemente perché costoro hanno interrotto qualunque tipo di rapporto con la realtà, e si sono rifugiate nel loro posto sicuro, nascoste dal mondo: l’una nelle braccia dell’altra, in un ricatto perenne che è solo sinonimo di fragilità interiore, e mai di amore e affetto sano. I guai arrivano quando qualcuno, dall’esterno, prova a comunicare con le due ragazze: se, da una parte July mostra il desiderio di aprirsi alle persone e al mondo, September è più decisa nella sua chiusura. É quest’ultima la carceriera dello spazio vitale della sorella, è lei che la tiene in ostaggio: a ogni movimento che è ricerca di libertà di July, September interviene e cerca di riaffermare la propria posizione di dominio, che si traduce per lei in fonte di sicurezza.
Da questo legame è tagliata fuori anche la madre delle ragazze che, sempre più esasperata dal comportamento delle figlie, pare essere più che mai vicina – scena dopo scena – a un crollo nervoso. Si tratta di una figura genitoriale che ha scelto passivamente di venire meno alla sua responsabilità, figura di guida, lasciando che gli eventi accadano, o agendo unicamente per evitare il peggio. Una carenza che è palpabile e resa ancora più evidente dall’assenza totale, concreta ed emotiva, del padre delle ragazze, causa, a sua volta – e questo lo spettatore lo può immaginare – del bisogno di controllo esercitato da September: c’è campo libero per le angosce tipiche di un’età adolescenziale, particolarmente sofferte, però, dalle protagoniste.
Chi è July?
Il risveglio di July avviene verso il finale di September says, attraverso una prima forma, a dir la verità, ancora embrionale, di ribellione ai dettami della sorella. Lo spettatore, arrivato fino a questo momento con una sensazione di incessante frustrazione e agitazione, vorrebbe vedere finalmente July più autonoma rispetto alla volontà decisionale della sorella.
July tenta di affermare la propria identità che ha suo malgrado scoperto, attraverso il confronto con i suoi pari, non sempre con modalità serene, ma non vi riesce del tutto. Emblematica, a questo proposito, è la scena finale del film, quando July giunta su uno scoglio con vista mare tenta di respirare – forse per la prima volta – da sola, un’aria che sia davvero tutta sua, sineddoche di una vita intera che l’attende, e della quale intende riappropriarsi. Ma sente un fischio, quello tipicamente usato dalla sorella per riportare l’attenzione su di lei, e ha un sussulto. Il nodo del ricatto è ancora tragicamente stretto, e lo spettatore può solo immaginare la lunga strada che attende la protagonista, verso il raggiungimento della sua libertà interiore.