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‘Dune: Prophecy’, la recensione dei primi due episodi: si parte bene

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Gli ultimi due prodotti HBO parlano chiaro: se al cinema una cosa funziona, espandiamola in televisione. Il confine fra cinema e serialità si sta assottigliando sempre di più. E i risultati sono notevoli: un esempio è The Penguin, che riparte dove si interrompeva The Batman e quasi supera il film di partenza. I primi due episodi di Dune: Prophecy, sembrano seguire questa direzione creativa solida e di alto livello. Le puntate sono disponibili dal 25 novembre su Sky Atlantic.

La trama di Dune: Prophecy

Diecimila anni prima gli eventi dei film di Villeneuve e cento anni dopo il Jihad Butleriano (la guerra contro le macchine dopo cui si è stabilito un freno alla sperimentazione tecnologica), il Bene Gesserit è ai suoi albori nella sua ricerca genetica per il Kwisatz Haderach. Guidato da Valya Harkonnen (Emily Watson, protagonista di Chernobyl, altro prodotto HBO), l’ordine si impegna nell’istruzione delle sue allieve da inviare nelle corti dell’Imperium. Il fine è consigliare (e influenzare) le scelte politiche delle Grandi Case.

Intanto, l’Imperatore Javicco Corinno (Mark Strong) è alle prese con la gestione di una pace in bilico e con il governo del pianeta Dune, da cui è appena tornato Desmond Hart (Travis Fimmel), un soldato dato per morto. Per rafforzare le sue alleanze, l’Imperatore acconsente a far sposare la figlia Ynez (Sarah-Sofie Boussnina), in procinto di entrare nel Bene Gesserit, con l’erede di un’altra importante famiglia. Qualcosa, però, non andrà come previsto per via di complotti e intrighi politici.

Struttura e modelli di Dune: Prophecy

Anche se il prodotto di partenza è un binomio cinematografico, Dune: Prophecy inizia come una classica serie tv. Il primo atto è convincente, compatto, efficace: viene voglia di saperne di più. Il primo episodio serve a introdurre i tanti personaggi della storia, le loro motivazioni e le loro relazioni (almeno in superficie). Ci sono tanti dialoghi, sorretti da degli interpreti finora tutti all’altezza. Succedono poche cose, per dare lo spazio necessario all’esposizione di tutte le linee narrative. Il vero colpo di scena è nel finale della prima puntata, chiusa con un classico cliffhanger che lascia l’azione in sospeso. Da qui in poi, niente sarà più come prima.

Nel secondo episodio, invece, i personaggi affrontano le conseguenze di questo evento che ha spostato gli equilibri. Si ritrovano costretti a spostarsi dalle loro sedi abituali. Devono fare cose che non avrebbero voluto fare. Chi deve difendere il suo potere, chi vuole conquistarsi il suo posto, chi agisce per un bene superiore. E alla fine, un altro evento che cambia i piani. Nei primi due episodi di Dune: Prophecy c’è uno schema che funziona: azione, reazione, controazione. In questo modo, i personaggi si caratterizzano per le loro scelte, per come reagiscono agli eventi e per come agiscono di conseguenza. La storia c’è.

Questa struttura ricorda lo schema dei primi episodi de Il trono di spade, creando un cortocircuito particolare. Dune: Prophecy, serie espansiva dell’universo letterario e cinematografico creato da Frank Herbert (lo scrittore di Dune), prende come modello Il trono di spade, la trasposizione seriale (sempre HBO) dei libri di George R. R. Martin, i quali, a loro volta, devono molto alle opere di Herbert. Un libro influenza un altro libro, da cui viene tratta una serie che diventa il modello di una serie ispirata al primo libro. Senza dimenticare le affinità di Dune: Prophecy con House of the dragon, altra serie HBO derivativa dalle opere di Martin: basti pensare alla predominanza di protagoniste femminili e ai numerosi intrighi di palazzo. Un groviglio di influenze e forme narrative, mescolate e controllate con maestria. “This is HBO”.

Struttura seriale, forma cinematografica

Ricordiamoci anche che “it’s not TV. It’s HBO”. Oltre alla struttura da serie tv, in Dune: Prophecy c’è spazio anche per un lavoro estetico di stampo cinematografico. In questo esordio, la struttura supera la forma, che, però, ha la sua rilevanza. Le showrunner Diane Ademu-John (che ha anche scritto questo episodio) e Alison Schapker riprendono le atmosfere dei Dune di Villeneuve. In particolare, la fotografia lavora nello stesso modo per differenziare fra toni caldi e freddi a seconda del pianeta in cui ci si trova. Anche costumi e scenografie sono molto simili (scelta giustificata dalle regole dell’universo narrativo, nonostante ci sia una distanza temporale di diecimila anni fra le due storie).

La regia di Anna Foerster (per il primo episodio) e di John Cameron (per il secondo) è meno spettacolare di quella di Villeneuve. Come è giusto che sia. È una serie, verrà vista a casa, non al cinema. E poi, servono più scene di dialogo che di azione. Nonostante questo, però, i registi inseriscono alcune sequenze oniriche, fuori dalla chiarezza espositiva che caratterizza i primi due episodi. Non è solo un vezzo, un virtuosismo: è padronanza del materiale narrativo di Herbert. Il Ciclo di Dune ruota attorno al melange, una droga: perciò, ha anche una componente psichedelica (non a caso ci ha lavorato anche Lynch). Perciò, è presente anche in Dune: Prophecy: questo è un ulteriore elemento che conferma la qualità di un altro prodotto HBO che, per ora, merita di essere visto.

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