Festival del Cinema Europeo

‘Breathing Underwater’ : il rifugio e la violenza

Emma, abusata psicologicamente dal marito, trova nel rifugio non solo protezione ma una nuova vita e nuove amiche.

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In concorso al Festival del Cinema Europeo per l’Ulivo d’Oro è Breathing Underwater di Eric Lamhène. Il film si trova nel caso anomalo nell’avere una sceneggiatrice, Lee Rae Lyn, nel doppio ruolo di scrittrice e d.o.p. Prodotto dalla Samsa Film e distribuito dalla Pluto Film, nel cast Carla Juri, Veronique Tshanda Beya, Esperanza Quevedo e Alessia Raschella.

IL TRAILER –  Breathing Underwater

La sinossi – Breathing Underwater

Emma(Carla Juri) scappa via nella notte coperta da lividi e inaspettatamente incinta. Trova riparo in un centro antiviolenza mentre cerca di capire cosa fare col marito Marc. Nella nuova casa riscopre parti perdute di sè attraverso le sue nuove compagne di viaggio: Khadij(Veronique Tshanda Beya), Esperanza(Esperanza Quevedo) e Sasha(Alessia Raschella) . I drammi personali si intrecciano e tra le quattro donne nasce una speciale sorellanza, sostenendosi a vicenda, lottando per la propria indipendenza.

A proposito di Emma – Breathing Underwater

Il merito del duo Eric Lamhène e Lee Rae Lyn risiede nell’aver tradotto una storia femminista di denuncia in un film che ne contiene almeno due. Breathing Underwater  certamente è un dramma sulla violenza e i soprusi. Ma non di quelli che sono evidenti. Emma la protagonista fugge da un’apparente vita tranquilla, appagata, per entrare dentro a un rifugio antiviolenza. La caratteristica del film sta nell’affrontare un tema di cui si parla poco: la manipolazione e l’abuso psicologico di cui molte donne sono oggetto. Ed Emma è un fuscello, inerme al possesso che della sua mente fa suo marito. Tanto fragile e con poche vie d’uscita, che incinta si auto-lesiona buttandosi dalle scale trovando in ciò una via di fuga. La protagonista, interpretata da un’eccellente Carla Juri, fa fatica a respirare tanto che ha gli incubi anche quando è protetta nel suo rifugio. In lei paradossalmente emerge la voglia di scappare, di tornare alla normalità della violenza. Un difetto di Breathing Underwater consiste nell’essere troppo schematico nella composizione della storia; le dissolvenze del nero hanno sempre una ragion d’essere nella chiusura e apertura di ogni passaggio storico di Emma.

Un film necessario

La protagonista compie tutte le tappe del classico personaggio violentato: disadattamento al nuovo mondo, voglia di tornare dove è scappata, creazione di nuovi legami e trasformazione in una nuova donna che ha sconfitto la violenza. Il film subisce di gran lunga questa dinamica da viaggio dell’eroina abbastanza standard. Schemi abbastanza prevedibili che mirano a fare scambio di gerarchie e piani di dominio tra Emma e il compagno Marc. Ma lasciando la storia di violenza che conduce Breathing Underwater su binari abbastanza ridondanti, l’opera di Lamhène e Lyn opera nel contempo il passaggio a un’altra destinazione. C’è un film a parte che sembra staccarsi fin da subito dalla zona orizzontale di Emma e del compagno violento. Ed è quella del rifugio. Questo è lo spazio vitale della narrazione, dove un nuovo mondo si crea. Le storie di donne vittime hanno il loro contenitore. E la violenza diventa anche un grande mezzo per esplorare una nuova vita che parte dal dolore e si tramuta in amicizia.

Il rifugio come nuova casa

Emma appena arriva nella casa rifugio non riesce a respirare e tutto il senso di Breathing Underwater appare questo, rimanere in apnea. Nel rifugio la protagonista incontra e stringe legami con donne che in modi diversi sono state violentate. C’è Khadij, con cui Emma ha il rapporto più conflittuale, che vive assieme ai figli e lotta per non farseli portare via dall’ex marito. Situazione analoga anche per il personaggio di Esperanza, donna fragile che vive con la costante paura di perdere l’affido. Infine Sasha con una storia abbastanza simile a quella di Emma nelle continua confusione tra cambiamento e amore reale. Queste donne con le loro storie sono alla fine la vera narrazione che è al centro di Breathing Underwater. Il rifugio è una casa accogliente, una prigione da cui scappare, un luogo poi da cui tornare sempre. Ed è in questo spazio che le quattro donne fanno a turno per confidarsi le proprie emotività, avere una vita normale lontano dalla violenza. Ma quell’abuso nel corso del film fa sempre ritorno, costringendo le protagoniste a fare i conti con le conseguenze dell’amore.

La storia al servizio delle donne

Ciascuna delle quattro donne è interscambiabile: si criticano a vicenda per come affrontano la violenza, si appoggiano, si uniscono proprio come una famiglia. E il rifugio, luogo in cui avvengono le maggior parte delle scene, è davvero uno spazio libero antiviolenza in cui nessuno può entrare a parte le vittime protagoniste. Non è un caso che ogni volta che gli abusatori cercano di rapportarsi e richiamare a loro le loro donne, rimangono sempre fuori da quella casa. L’idea molto vicina alla realtà della sceneggiatrice Lee Rae Lyn, è aver voluto creare uno spazio solo di donne e con donne. Dove all’abuso e abusatore viene impedito di varcare la soglia.

Possono accedervi solo il presente della violenza come un problema che va risolto tra donne e solo all’interno del rifugio. La forza di Breathing Underwater sta nel documentare la verità della violenza lavorando in sottrazione. Emma e le sue nuove amiche si mettono completamente al servizio della storia, riproducendo una verità in cui ogni donna vittima può trovare il coraggio di ribellarsi non tanto all’uomo che non vuole avere al suo fianco ma all’idea che nel tempo si sono costruite di se stesse. Le protagoniste nella scena finale ridono e si divertono nella sala da pranzo del rifugio. Ricominciando finalmente a respirare.

Breathing Underwater ha un modo onesto e lineare di rappresentare la violenza. Esplorando la tematica quanto basta senza ricadere nella retorica del genere.

 

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