Finita la guerra di Troia, Ulisse impiegò dieci anni a tornare a Itaca. In questo tempo perse tutti i suoi compagni di viaggio e passò lunghi giorni e fredde notti in mezzo al mare.
After the Odyssey racconta un altro tipo di Odissea a noi costantemente prossima ma che, come il mito, vive di una narrazione continua, a tratti logorata: le rotte migratorie mediterranee.
Il documentario di Helen Doyle affronta però il tema con uno sguardo femminile aggraziato e un’empatica bellezza.
After the Odyssey sviluppa in una narrazione corale i primi passi di quella che è la nuova vita dei sopravvissuti alla tratta mediterranea. Dalle coste di Lampedusa, risalendo le pendici dell’Etna, le vie di Napoli e gli spazi romani, Helen Doyle registra nella sua narrazione due voci.
Da un lato dà spazio a un racconto tangibile ma raramente trattato per il suo, forse, risvolto scabroso: la tratta di prostituzione nigeriana che si attiva nell’istante d’arrivo delle giovani, a volte giovanissime, donne sopravvissute al mare, alla Libia, al deserto, alla fame e alle botte.
Le voci a cui sceglie di dare spazio sono quelle delle stesse protagoniste, le sopravvissute dirette o indirette di un network internazionale che si espande per tutta l’Italia, la Spagna, la Germania e l’Inghilterra.
Una narrazione totalmente femminile e internazionale accompagna e sorregge le testimoni: ricercatrici, giornaliste, studiose, artiste e fotografe che raccontano il traffico della prostituzione nigeriana senza addolcire la pillola, in maniera diretta e precisa.
Ma After the Odyssey dà spazio anche a un’altra tipologia di rete: quella dal basso di donne volontarie che creano centri di resistenza: reti sociali di accoglienza per chiunque arrivi in Italia.
Il film crea un arcipelago di sostegni, un interesse umanitario e artistico che si sviluppa a guscio protettivo alle donne richiedenti asilo, tra l’abbandono delle autorità competenti e il pericolo del traffico di prostituzione. Persone che hanno creato terreni di fortuna e di sostegno in mezzo alla negligenza istituzionale.
“L’idea è quella di una casa che si apre: pensavamo di avere una famiglia, oggi sappiamo che abbiamo una tribù”
dice orgogliosa Carmela Comens, che gestisce alle pendici dell’Etna una realtà di accoglienza senza distinzioni di sesso, età e nazionalità.
Cura e bellezza
Le immagini di After the Odyssey sono bellissime. Il film cerca di essere compendio di pratiche artistiche di bellezza e di cura, nobilitando e rinnovando un tema noto e attuale ma logorato dalla constante attenzione mediatica.
Il film è di un’estetica intimista: uno sguardo d’artista che passa da racconti leggendari disegnati nella sabbia a immagini contemplative delle calde rocce siciliane. La camera talvolta è a filo sul mare quasi ad annegarvi, mentre l’Etna ribollente copre di fuliggine il cielo.
Al movimento cinematografico viene appoggiata una ricerca fotografica eccezionale.
Basta a un certo punto, verso la prima metà del film, l’immagine di un gruppo di donne appena sbarcate, con le coperte termiche oro increspato, che si scontra con il nero della pelle e il grigio-azzurro del mare alle loro spalle, a ripulire lo sguardo dello spettatore e posizionare la storia in una prospettiva di bellezza nuova.
Vi è poi una commissione con il linguaggio classico delle talking heads care al documentario, che permettono di arrivare al cuore del discorso senza leziosità, costituendo in esse la natura informativa e politica del lavoro.
Un documentario su cui riflettere, un compendio di buone pratiche, una storia di cui c’è ancora bisogno di parlare.
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