Disponibile su RaiPlay, dopo la messa in onda notturna su Rai 3 da parte del benemerito e storico programma Fuori orario. Cose (mai) viste, Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975) di Chantal Akerman, in un’incomparabile versione restaurata, che soppianta le pochissime copie snaturate in circolazione e ne restituisce con nitore chiaroscurale e millimetrica fluvialità (più di tre ore) il suo fascino spiazzante, ipnotico, inafferrabile, oltre a far rivivere di nuova linfa una fama rinvigorita e sopraggiunta di recente con sorpresa pressoché unanime.
Rosa shocking
Com’è noto agli appassionati e agli addetti del settore, ogni dieci anni la rivista Sight and Sound stila dal 1952 la classifica dei migliori film di sempre, secondo un sondaggio a cui partecipano centinaia tra i più autorevoli critici cinematografici; nell’elenco pubblicato nel dicembre 2022 svetta al primo posto proprio Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles, spodestando con fragore assordante La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock (1958) che conquistò il primato nel 2012, a sua volta sottratto a Quarto potere (1941) di Orson Welles dopo inossidabili cinquant’anni.
La magnanima intitolazione a Jeanne Dielman, sfuggente a qualsiasi previsione e contro vari dogmi culturali, è stata oggetto di dibattito, analisi, studi, provocando contrasti, opposizioni, adesioni, rivalutazioni, tutte incentrate su un film che è fiction e documentario insieme, sperimentazione e ribalta di divismo, rigore e anticlassicismo, fissità del tempo ed azione in essere, prosa e simbolismo.
Ma, al di là delle speculazioni accademiche sul decennale sondaggio di Sight and Sound (dove rispetto al 2012 il film di Chantal Akerman risale addirittura dal 36esimo posto) e dell’aleatoria natura dei cataloghi di eccellenza, oltre alla chiamata in causa del movimento #MeToo per una rilettura storicistica, alla diatriba su cui ruota ogni canone e al sensazionalismo di cronaca (cinefila), cosa conferisce lo status di capolavoro di Jeanne Dielman nella filmografia originalissima di questa regista belga, ridefinendo linguaggi e sottoponendo il nostro sguardo a sconosciute potenzialità espressive del dispositivo filmico?
Nella narrazione di un’arte non popolare
Tutto è concreto (fino dal titolo che ci fornisce l’indirizzo) e tutto è sotterraneo, sussurrato, reticente nell’esposizione di tre giorni della vita di Jeanne Dielman, vedova piccolo-borghese di mezza età con un figlio adolescente a carico, la cui quotidianità da casalinga è scandita ripetutamente da rituali domestici, da ritmi coordinati e monocordi, da una padronanza di gesti incastonati in una sicurezza rodata e apparentemente rassicurante. Preparare la colazione, lucidare le scarpe, accudire il neonato della vicina, fare la spesa, cucinare i pasti, cenare la sera con il figlio. E prostituirsi nei giorni feriali con un cliente nel proprio appartamento per sbarcare il lunario.
Fino a quando la meccanica orchestrazione dei gesti si incrina impercettibilmente dal secondo giorno e nel terzo un quid di repressa insoddisfazione si protrae, si accumula in una scissione di dettagli non più speculari, in un’eco di cacofonia che sconquassa la giustapposizione cadenzata delle sequenze in rima fra loro, in una frizione tentennante e sommersa tra visibile e invisibile. Un maldestro danno in cucina, un oggetto che cade, un negozio chiuso, un coperchio fuori posto. Pelare ossessivamente le patate, fissare il vuoto seduta in poltrona. Trascurabili momenti di infelicità. Fino a un efferato fatto di sangue che pone fine a questo anomalo exemplum di vita, dove il piacere, anche fisico, è soffocato.
Placida epopea di angoscioso incanto
Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles non è un’opera di introspezione psicologica al femminile sulle nevrosi e sui desideri repressi, né un affresco sociologico sulla grigia ipocrisia di classe nella cornice di un ritratto, né un affondo antiborghese contro le coercizioni di libertà sociale e la ritualità ordinaria affettata e svuotata di senso, anche se si avverte un’ascendenza remota da Luis Buñuel, tra Bella di giorno (1967) e Il fascino discreto della borghesia (1972). Come spiega infatti la stessa autrice:
All’inizio ero convinta di raccontare semplicemente tre giorni della vita di una donna, ma poi ho capito che era un film sull’occupazione del tempo, sull’angoscia: fare le cose nel giusto ordine per non pensare al problema fondamentale, l’esistenza.
Cineasta tra le più innovative e poliedriche del panorama europeo per quarant’anni, Chantal Akerman (1950-2015), coerente con la sua poetica di un cinema essenziale, radicale ma epifanico e nella sua ricerca di una sperimentazione ibrida tra fiction e documentario, girò in sei settimane il film della carriera, con lunghi piani sequenza, macchina da presa fissa e una presa registica calibrata: film-saggio sul funzionamento di un altro sguardo possibile al cinema e sull’esercizio cognitivo dell’atto di osservare criticamente, opera-mondo a porte semichiuse sui grovigli inesplicabili della vita come viene, odissea post-joyciana in tre atti dove la tenebrosa cognizione di sé coincide con un’emancipazione dolorosa, deflagrante, ma finalmente catartica.
La resistenza dello sguardo oltre il regime della trasparenza
Nella cristallizzazione del tempo nelle lunghe inquadrature si documenta il fluire statico del nostro reale, mentre nella messinscena della finzione la cinepresa di Akerman intercetta le insenature più recondite della sensibilità della protagonista, defilata, opacizzata, ostracizzata da una sistema patriarcale che la opprime in un paradigma sociale. Un viaggio nella coscienza che si snoda impercettibilmente in uno spazio diegetico che riverbera in luci e colori fievoli ma di evanescente fulgore, in una tavola di ricercati cromatismi che vibra di astrattezza, mistero, fatalismo ineluttabile, morte (fotografia di Babette Mangolte). Come si coglie dal riflesso di una spettrale e sinistra luce bluastra esterna, che pulsa intermittente nella sala da pranzo della protagonista, iniettando nel visibile di un modesto appartamento borghese lo spiraglio di un’alterità che è proiezione dell’inconscio. Un disagio esistenziale su ci ammonì Henry David Thoreau:
La maggioranza degli uomini vive in quieta disperazione. Ciò che si chiama rassegnazione è disperazione rafforzata.
Pur nella sua torrenziale durata e nella sua grammatica di sequenze fisse e protratte, Jeanne Dielman conserva con audacia espressiva la visione ammaliata dello spettatore, in una logica di suspense nella sua accezione di sospensione, nell’attesa di una deflagrazione psicologica della protagonista, procrastinata fino al finale repentino, ma distillata nei già citati piccoli imprevisti che si caricano della forza evocativa del perturbante, in questa narrazione non classicistica (priva di una rottura iniziale dell’equilibrio) e antihollywoodiana.
Una rosea fucina creativa
Alla bellezza non accomodante dell’opera, che richiede un regime di partecipazione attiva contro i canoni abituali di fruizione nei dettami dell’intrattenimento audiovisivo, contribuisce la prestanza scenica di Delphine Seyrig, interprete intellettuale e impegnata, qui simulacro divistico di altri mondi, dalla surrealtà di Buñuel (La via lattea, Il fascino discreto della borghesia) alla modernità temporale di Alain Resnais (L’anno scorso a Marienbad, Muriel, il tempo del ritorno), fino alle esperienze post-avanguardistiche di William Klein, per cui recitò in titolo emblematico, Evviva la libertà. Con la sua fisicità minuta (che regge sulle sue spalle l’intero minutaggio) dalla carnagione diafana e il suo volto di sensuale e lunare regalità Seyrig dispensa tocchi di grazia come una ballerina classica a riposo e, sotto la direzione d’orchestra di Akerman, compone un’ariosa polifonia gestuale sotto le spoglie di una leggiadra e noncurante naturalezza.
Assoldata in un’operazione rischiosamente sperimentale, l’attrice firma un sodalizio artistico squisitamente femminile con la regista per dar vita a un cinema dei tempi morti non più banditi, dell’inquietudine più rivelatrice, dell’evoluzione dello sguardo emancipato, dell’empatia più tenebrosa per un personaggio pregnante di universalità, ma né eroico, né avventuroso o esemplare. A Chantal Akerman piaceva ricordare un commento dell’amata madre su Jeanne Dierman, che chiunque abbia visto il film non potrà che sottoscrivere di fronte al suo intenso minimalismo.
Chantal, nella scena con le patate c’è tutto.
L’eredità in un tempo scosceso
Circolante dal 1975 nei circuiti di nicchia, dopo la presentazione alla Quinzaine del Festival di Cannes, e nei cineclub, Jeanne Dielman ha inaugurato inediti percorsi formali da esplorare, ha ispirato registi come Todd Haynes e Gus Vant Sant, infine dal 2022 si è imposto sopra tutti i classici e i titoli più storici con la mite spudoratezza di appartenere a un cinema d’essai ed estremo, con il retroterra di film sensibilmente femminile, ma non programmaticamente femminista; ma anche con la ritrosia di un capolavoro che mai forse si sarebbe aspettato un primato aureo, rifuggendo la magniloquenza autoriale e cerebrali manierismi.
Ai posteri l’ardua sentenza della sua cittadinanza primaria nella storia del cinema, senza che il tempo del giudizio critico, che scompagina talvolta a sorpresa le carte, possa scalfirne l’anticonvenzionale e ieratica grandezza.