Euro Balkan Film Festival
‘Only when I laugh’: la cruda verità dietro il contratto matrimoniale
Il potente lungometraggio di Vanja Juranić racconta l’incubo dietro un matrimonio apparentemente perfetto
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3 mesi agoon
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Ailen PasosOnly when I laugh, opera della regista croata Vanja Juranić, è stato presentato in chiusura all’Euro Balkan Film Festival, nella cornice di una giornata dedicata interamente alle donne. Il focus, infatti, vuole sottolineare il crescente numero di registe che operano nel cinema dei balcani e non solo, incentivandone anche la partecipazione attraverso panel e talk dedicati.
Il lungometraggio è una prodotto da Maxima film e Biberche Productions, con il supporto di Creative Europe Media. Nel cast tra i ruoli principali: Tihana Lazović, Slavko Sobin, Jasna Djuričić, Elodie Paleka.
Only when I laugh, la gabbia dorata di Tina
Tina, giovane moglie e madre, vive un matrimonio apparentemente idilliaco in una pittoresca cittadina sulla costa adriatica. Quando esprime il desiderio di continuare gli studi, che aveva interrotto a causa della gravidanza, la situazione con il marito Frane precipita rapidamente. Tina decide comunque di iscriversi al corso, nonostante i conflitti nel matrimonio diventano sempre più frequenti, ai quali si aggiungono attacchi violenti da parte del marito. Quando Tina prova ad aprirsi con la madre o le amiche, non sembra avere l’appoggio che auspicava, anzi: le viene consigliato di pazientare con Frane e dedicarsi di più alla vita da casalinga e madre. E quando sembra aver trovato il giusto equilibrio tra studi, famiglia e vita sociale, una banale uscita con le amiche stravolgerà completamente le loro vite, sfociando nella tragedia.
Una triste e ricorrente storia vera
Vorremmo non dover dire che la realtà supera la fantasia, ma purtroppo è il caso di Only when I laugh. Juranić per il lungometraggio si ispira ad una storia vera, un caso mediatico croato che fece grande scalpore: parliamo di Ana Magaš, condannata per aver ucciso il marito dopo una lite violenta. La donna viveva un matrimonio violento, che tutti descrivevano come apparentemente felice, dove la moglie non aveva di che preoccuparsi in quanto sistemata comodamente con un uomo facoltoso. La regista, da un’iniziale ispirazione, crea un racconto che nulla ha a che vedere con il voler esaminare il processo, ma bensì espone tutti i punti più crudi di una relazione invalidante sotto l’ordine dell’abuso perpetuo. E questo, purtroppo, la rende un’incredibile storia universale.
La verità è che Tina già vive un rapporto abusante: i campanelli d’allarme esistono ancor prima che la protagonista decida di riprendere gli studi abbandonati a causa della gravidanza e del conseguente matrimonio. Quella che è inizialmente una decisione tutt’altro che difficile, si rivela l’incubo più grande per Tina. È l’incontro con una ex collega dell’università a motivare la giovane madre, e un dettaglio non le sfugge: annuncia che si è separata recentemente, descrivendola come la miglior scelta che potesse fare. Questo risolleva gli animi di Tina, che sembra vedere la luce in fondo al tunnel. Ma lo scenario che le si presenterà davanti sarà ben diverso.
Only when I laugh: l’anacronismo della società moderna
Tina inizia con la madre Darinka, proponendole il divorzio come soluzione per sé stessa e la sua rinascita. Ma non viene compresa: anzi, la esorta a pazientare con il marito Frane, a non trascurare le faccende domestiche né la figlia. Poi è la volta delle amiche, intente a godersi la vita perché con una certa coscienziosità hanno fatto la “scelta giusta”: un matrimonio con mariti facoltosi e dunque, per la società, felice. Tina non demorde, e annuncia a Frane la scelta di voler riprendere gli studi, che le darebbero quantomeno l’indipendenza economica che ora non ha. La manipolazione prende piede proprio a partire da quel momento: tra scatti d’ira repentini e velate conversazione svalutanti, Frane addirittura dà il denaro necessario a Tina per potersi iscrivere al corso. Una subordinazione naturale, per il marito, potremmo dire.
Nell’immensa difficoltà e con non poca umiliazione, Tina procede anche se a passo lento. Riesce a completare i primi esami, forse c’è un minuscolo momento dove pensa che la situazione con Frane possa migliorare. Sono tutte illusioni, chiaramente: dopo un compleanno di una cara amica viene invitata da alcuni colleghi dell’università a rimanere qualche ora in più nel locale. Saranno proprio loro gli unici che si preoccuperanno davvero di lei, e della pericolosa situazione che sta vivendo. Ecco che le intuizioni si fanno concrete: Tina torna a casa, corre nella notte sapendo che una tragedia l’attende.
Il terribile sesto senso
La regista fa ricorso sin dall’inizio dell’opera all’inserimento di sequenze trigger, flashforward che rappresentano l’intuizione di Tina. In questi incubi notturni, la donna corre sola nella notte tentando di arrivare a casa. Lì bussa incessantemente alla porta della figlia, non trovandola. Una scelta che smaschera il finale, si potrebbe pensare: non ci è difficile pensare a come finirà la triste vicenda. Eppure questo è un elemento che sottolinea la necessità della regista di rendere un altro lato della narrazione importante. Automaticamente, l’attenzione si sposta sui dilemmi che intercorrono nella storia prima dell’enorme tragedia: il divario generazionale sui temi del patriarcato, i seri danni di una relazione abusante e l’accettazione inconscia di alcuni schemi comportamentali tradizionali nella nostra società.
Il meticoloso lavoro sulla fotografia di Danko Vučinović si intreccia perfettamente con una regia iper realista, con riprese a mano libera che ricordano i toni del documentario. Alcune sequenze sono estremamente crude, Juranić non risparmia nulla. Non serve per impressionare lo spettatore, perché questa è a malincuore una delle tante storie reali che va oltre ogni confine geografico.
Le performance attoriali sono eccelse, Tihana Lazović (Tina) è una protagonista a tutto tondo, incalzando i ritmi tesi del lungometraggio attraverso un ruolo stratificato e complesso. L’accompagnano nel cast Slavko Sobin (Frane), nei panni di un marito estremamente violento e Jasna Đuričić, che interpreta una madre divisa tra le tradizioni del passato e la volontà di aiutare la figlia a liberarsi da un dolore così grande.
Il contratto sociale: un diritto di chi?
Il racconto che la Juranić propone vuole rendere tutti i personaggi partecipi e responsabili di questa tragedia. Un fattore importante che ha lasciato precipitare Tina nel suo incubo è stata l’assenza, da parte di familiari e amicizie, di un sostegno reale alla sua causa legittima. La regista espone un problema serio, che va oltre le relazioni pericolose e le loro conseguenze per un’intera famiglia. Come siamo arrivati a legittimare un tipo di assoggettamento così preciso nella società? Che tipo di lavoro è quello domestico? Perché deve riguardare alcune e non tutti?
In questa idea di matrimonio, non resta che una libertà: quella di dipendere, benché ogni donna sia libera di rimanere sola. Lo spiraglio di luce lo intravediamo nelle nuove generazioni, interpretate dai giovani colleghi di Tina. Gli unici che, contro corrente a quanto pare, si preoccupano per le sorti della giovane protagonista. Juranić con la sua opera sottolinea l’importanza di continuare ad evolvere e sostenere la lotta contro quel patriarcato più radicato nella società. Ma anche di non abbandonare coloro che ancora sono intrappolate in queste terribili gabbie dorate.