Na Marei è stato presentato al Rome Independent Film Festival. Il cortometraggio è portatore di una forza e di una significatività tale nel suo messaggio, da folgorare lo spettatore con la sua carica di coraggio, di speranza e anche di autentico dolore.
La cinepresa di Léa-Jade si muove su un terreno scivoloso, sulle tracce di un ossimoro narrativo costante, dalle derive tanto inaspettate quanto emotivamente forti. La protagonista principale, Zaira, ha due volti e due nomi, oltre che due identità di genere distinte: una maschile, che risponde al nome di Zaid, e che le permette di studiare e avere quel poco di libertà che le è consentita, e l’altra, quella femminile, che invece deve nascondere per poter inseguire i propri sogni e le proprie personali aspirazioni.
Almeno, fino al punto di rottura, che coincide con l’acme narrativo ed insieme finale del film, oltre ad essere espressione di un aspetto culturale, di potere, esercitato, tramite soprusi e ricatti, sulla pelle delle donne: il matrimonio forzato.
La sorprendente idea alla base del film
Alla base di Na Marei vi è un’idea narrativa e registica estremamente interessante: in una realtà culturale come quella araba, nella quale i ruoli di genere sono ben definiti e sicuramente cristallizzati nella loro relazione con aspettative e posizioni sociali, la rappresentazione scelta è quella del ribaltamento di quest’ordine. Di più: esso viene sovvertito alla sua radice. L’effetto è altamente straniante, ma perfettamente integrato con la narrazione filmica: è semplicemente qualcosa di estremamente inatteso.
L’inversione dei ruoli di genere, fin dall’antichità classica, è sempre stato generatore di riso, con un effetto comico. Ne sono prova le più brillanti commedie greche. Eppure in questo caso l’effetto non è certamente quello del riso, ma il paradosso portato all’estremo, nella forma di una realtà culturale ribaltata nei suoi ruoli, che consente la riflessione del singolo davanti a ciò che vede e che prende spaventosamente sempre più forma, tra una scena e l’altra.
Per la prima volta lo spettatore può vedere rappresentato il “dietro le quinte” di una vita dove vigono costrizione e ricatto, su scelte di natura strettamente personale; e può osservare le conseguenze emotive di tale condizione indagando anche il dolore e la disperazione causate da un simile sistema.
L’elemento cardine di Na Marei, in questo senso, è sicuramente quello della sorpresa.
La questione dell’identità di genere
In Na Marei assume un ruolo centrale il concetto di identità di genere. Cos’è maschile e cos’è femminile, in uno spazio filmico nel quale Zaid è Zaira e Zaira è Zaid? Effettivamente tutte e due le identità insieme, che sembrano mischiarsi ed essere mischiate (ma questo solo nella prima parte del cortometraggio).
In un secondo momento è infatti lo stesso sistema culturale nel quale la protagonista vive ed è immersa a delineare – suo malgrado – i confini dell’identità di genere di Zaira. È una donna e, in virtù di questa connotazione biologica più che di genere, dovrà sposarsi.
Si può parlare, invece, di identità di genere, esclusivamente nella prima parte del corto, quando Zaira ha ancora l’illusione di poter decidere per sé.
È ancora Zaira che, vestendosi con abiti maschili, può andare a scuola, studiare, imparare. All’origine della sua libertà, per quanto limitata essa sia, vi è un atto di negazione della propria identità di genere. Una negazione pesante, che riesce a trasmettere allo spettatore e forse a condividere con esso, tutto il carico emotivo di una scelta così difficile, specie nell’età dell’adolescenza nella quale di fatto l’essere umano ha bisogno di scoprirsi, in maniera autentica e libera.
Zaira è costretta anche nella sua decisione di essere un maschio, almeno esteriormente. È il suo scudo, garante di libertà, che sa potrà esserle tolto da un momento all’altro.
Zaira non è Zaid: l’importanza della sequenza finale
Se è vero che Na Marei ha un doppio personaggio, sul finale del cortometraggio questa doppiezza si scontra con la realtà e crolla, come un castello di sabbia, nella più viva e palpabile disperazione provata dalla protagonista.
Il finale del film, in questo senso, è più che mai diretto: è la madre ad annunciare a Zaira le sue imminenti nozze e dunque a precludere alla ragazza un futuro di sogni leciti, oltre che particolarmente coraggiosi. Una donna che limita un’altra donna invece di innescare un necessario processo di solidarietà; è una donna – la madre di Zaira – che ha assunto connotati maschili, in uno spietato vortice di inversioni di ruoli ancora perfettamente evidente e sapientemente rappresentato.
Zaira indossa ora un velo e un abito bianco, ma è privata di una qualunque forma di energia vitale: lo spettatore vede con i suoi occhi e respira con i suoi polmoni, suggerendo – in maniera estremamente riuscita – l’idea di una vita che non appartiene più al corpo che suo malgrado abita.
Addirittura, Zaira viene imboccata, fatta sedere su una sedia, i presenti le porgono doni: tutto intorno a lei si muove e tutti si muovono, tranne lei. Zaira non è più né uomo né donna: entrambe le sue identità sono morte e diviene un oggetto, di cui si può liberamente disporre.
Che cos’è libertà, attraverso parole ed emozioni
Na Marei riflette sul concetto di libertà e lo fa fin dalla prima inquadratura. Fin dal momento in cui, attraverso una poesia da recitare in classe, Zaira prova a dare significato a tutto il fervore interiore che avverte e alla sua profondità d’animo.
E parla di libertà: una voce sola, che pure riesce ad assumere la forma di un soffio di vento vitale che pervade lo schermo e arriva dritto allo spettatore. Un vento di nuovi significati, personali e collettivi. Libertà attraverso le parole (che rimane una modalità di arrivare agli altri centrale in tutto il cortometraggio) e che si riferisce anche alla possibilità – attraverso la volontà del singolo – di progredire sulla tortuosa strada del riconoscimento dei diritti alle donne.
A partire da una filastrocca che Zaira ripete continuamente con sua sorella:
“Libero io vivo, libero io fiorisco, libero io emergo dalla terra, libero io morirò”
Proprio il nome maschile della protagonista, Zaid, significa “crescita, abbondanza” e ancora “colui che progredisce”, quasi a indicare una missione che ha il personaggio, a partire dal suo stesso nome, e che esercita per tutta la durata del cortometraggio. E oltre. Questa volontà, chiara e precisa, infatti, si collega bene al mondo “fuori” dallo schermo. Alle proteste, alla rivoluzione, alle manifestazioni, agli inni di libertà, che animano le piazze e le menti del nostro presente.
E riecheggia, almeno nella personale visione di questo film, una canzone dal titolo Baraye, del cantante iraniano Shervin Hajipour (perseguitato nel suo Paese a causa di tale impegno) diventata inno di rivoluzione, anche contro ogni sopruso di genere, quando la stessa Zaira ripete la parola “baraye” (nella sua traduzione italiana “per”), nella poesia in classe.
Per le donne, la vita, la libertà.