Presentato in anteprima al Festival dei Popoli, Tineret – prodotto da Esen studio – è il biglietto da visita con cui Ballante entra a far parte del panorama documentaristico italiano.
Trap, ovvero la ricerca del riscatto
In merito a Tineret e alla sua narrazione sarebbe errato parlare di trama, poiché tutto ciò che ci viene mostrato dalla macchina da presa non appartiene all’affascinante universo della finzione cinematografica ma proviene dal reale. Una dimensione sicuramente più cruda, ma non per questo meno ammaliante. Infatti, il lavoro del regista si concentra nel seguire la vita quotidiana di Andrei, un ragazzo moldavo che vive nella periferia romana, assiduamente immerso nel mondo del lavoro per garantire un futuro alla sua famiglia. Tuttavia – tra un sacrificio e l’altro – il giovane ambizioso sogna un futuro nella scena Trap intesa sia come la via per il riscatto sociale, sia come una mezzo di fuga dalla dura realtà precaria.
Narrare con la realtà
Vi è un malinteso nella produzione cinematografica odierna, perché a causa delle classificazioni sempre più numerose tendiamo infatti a intrappolare i film in etichette, per cui ogni prodotto ha un suo perché e una sua funzione. Dimenticandoci come la realtà – specialmente quella artistica – sia molto più fluida e complicata da ordinare.
Questo processo – tipico della produzione industriale – porta all’errata credenza secondo cui il documentario dovrebbe descrivere una realtà circostante in maniera fredda o addirittura accademica. Mentre ai film “puri” il compito di emozionare. Così facendo i documentari narrativi (B.Nicholson) tendono ad apparire come degli oggetti estranei, come se provenissero da culture o epoche lontane. Eppure, questi strani corpi alieni sono ben presenti nella produzione cinematografica, sia storica che attuale.
Tineret incarna un ottimo esempio. E stupisce infatti come Ballante sia riuscito a rappresentare la vita di Andrei “semplicemente” affiancandogli la macchina da presa in tutte le ore della sua giornata. In questo essa diventa quasi un quarto parente delle famiglia, offrendo a noi spettatori una sguardo esclusivo. Anche per mezzo delle scelte registiche, con piani ravvicinati per meglio esprimere la vicinanza con il protagonista, soprattutto nelle situazione più “banali” ma intime come i discorsi tra due amici sognatori all’interno di una macchina parcheggiata nella fredda periferia romana.
Dopotutto il cinema non è costretto a tagliare i momenti morti della vita – come affermava Louis Garrel interpretando Godard in Le Redoutable – ma alle volte il racconto della noia del quotidiano può immedesimare e affascinare più della grandi narrazione epiche.
In ultima analisi Tineret, per merito delle sue qualità artistiche e reali, risulta un’opera toccante in grado di emozionare denunciando la precarietà e la vita sacrificata di un’intera classe sociale. Sottolineando inoltre come alle volte la bellezza possa nascondersi all’interno di un parchetto o di un parcheggio di una periferia .