La gita scolastica (Excursion, 2023) è il primo lungometraggio della regista Una Gunjak che arriverà nelle sale italiane il 7 novembre, distribuito da Trent Film. Il film ha vinto una menzione speciale al Locarno Film Festival 2023 ed è stato candidato come miglior film straniero agli Oscar 2023. Sarà in concorso al 7° Euro Balkan Film Festival.
La Gunjak sceglie le sue radici per raccontare questa storia di crescita durante la critica fase dell’adolescenza. Dove i protagonisti cercheranno il proprio spazio su un terreno troppo arido e avvizzito da un cocente moralismo. Con coraggio ha scelto di girare con la camera a mano, donando allo spettatore quelle vibrazioni emotive catturate direttamente dagli occhi degli attori. Creando un’oscillazione di prospettive che fluttuano dalla compassione per la fragilità all’indignazione per una futile crudeltà, figlia di un’etica patriarcale immorale. Ulteriore aspetto che ne potenzia il realismo è quello di far interpretare i ragazzi da attori non professionisti. Che si muovono in ambienti poco accoglienti, dai colori piatti e metallici.
La gita scolastica, la trama
Sarajevo. Nel corso di un incontro scuola-genitori si discute della gita scolastica prevista per una classe di terza media. La gita è però messa in dubbio dall’episodio – realmente avvenuto – in cui sette tredicenni di Banja Luka (Republica Serbska) sono state violentate proprio durante una gita scolastica. Dibattito da cui a uscirne sconfitte sono le vittime, colpevoli di chissà quale menzogna o raggiro. Quella stanza chiusa da quattro mura però non è nient’altro che l’eco di una nazione. Quei genitori sono i rappresentati di un popolo, e le loro parole danno voce a una legge non scritta, figlia della consuetudine patriarcale, pronta a giudicare le coscienze.
La protagonista è Iman (Asja Zara Lagumdzija). Come impone la sua età, è impaziente di dimostrare un’identità dai contorni ancora troppo sbiaditi e una sessualità da scoprire oltrepassando l’intimità. Durante il gioco “obbligo o verità” confessa ai compagni di aver avuto un rapporto sessuale con un ragazzo. Parole leggere, ingenue e innocenti che tuttavia innescheranno una catena di voci sibilanti, man mano sempre più acute ed acuminate capaci di squarciare il velo di un vergine disincanto.
L’intervista esclusiva all’autrice Una Guniak
Una Guniak ha lasciato la città natale per inseguire il suo sogno di diventare regista dopo aver conseguito un diploma di montaggio alla NFTS (National Film and TV School) di Beaconsfield. L’abbiamo intervistata in occasione della presentazione del suo film al 7° Euro Balkan Film Festival. Kermesse che promuove cineasti esordienti provenienti dalle regioni balcaniche, che si terrà a Roma dal 6 al 12 novembre 2024.
La gita scolastica si apre con l’incontro scuola-genitori per discutere dell’organizzazione della gita scolastica. Il dibattito deraglia quando affronta il reale episodio di stupro di alcune tredicenni di Banja Luka durante una gita scolastica. Nel corso della discussione emerge il giudizio moralista di alcuni genitori che li porta a condannare addirittura le vittime. Quanto le radici del pensiero patriarcale, trasmesso per generazioni, rischia di infondersi nella coscienza dei propri figli, influenzando lo sperato cambiamento sociale bosniaco verso l’apertura e l’ascolto della diversità di genere?
Tantissimo in realtà, perché i ragazzi queste cose le sentono a casa direttamente dagli adulti; se va sulla pagina di Facebook di Trent Film che distribuisce il film, c’è gente che fa gli stessi commenti come quelli del film. Dunque è proprio quella la ragione per la quale mi sono decisa ad affrontare questo argomento, perché sono ancora purtroppo molto arrabbiata contro il sistema. La responsabilità della violenza che la società infligge alle donne è una cosa che mi spaventa. Purtroppo non si tratta solamente di adulti ma anche di ragazzi e ragazze che si appropriano di questo punto di vista patriarcale molto violento. E che un giorno a loro volta trasferiranno alle nuove generazioni.
Quotidianamente si leggono fatti di cronaca di violenza sulle donne, fenomeno che ha coinvolto anche il mondo del cinema. Uno tra tutti il caso di Harvey Weinstein, che ha smosso il movimento Me Too. La battaglia femminista sempre più crescente, pronta a scovare nemici ma anche fantasmi, rasentando a volte anche una sorta di censura lesiva della spontaneità, non rischia di sfociare in un femminismo privo di sostanza? Dove i proclami di difesa della donna si trasformano in pura immagine, svilendo la sua stessa figura e contribuendo a immaginarla come una creatura fragile, priva di forze, bisognosa di cure?
Secondo me questa è una concezione sbagliata del femminismo. Il femminismo è l’uguaglianza dei diritti e dell’accesso al potere per entrambi i sessi e per quelli che si definiscono in altri modi. Gli sfruttatori del potere sono molto spesso maschi di mezza età bianchi che si trovano in posizioni importanti, condizione che ci mostra un altro tipo di imperialismo, connesso con altre condizioni sociali e politiche. Il femminismo non è un’etichetta che si mette sulla fronte e tutto passa, tutti devono essere per l’uguaglianza di tutti; chi la usa in maniera controproducente pensa che è una causa che scusa tutti i comportamenti.
Iman, la protagonista, è un’adolescente dall’aspetto mascolino, che si distingue dalle sue compagne seguaci della moda. Ma, per catturare l’attenzione di un ragazzo che le piace e dei compagni, comincia a guardare ciò che ne esalti un’ostentata femminilità. Questo cambiamento sottende un atto di ribellione verso il giudizio altrui legato all’apparenza o è un adeguare la propria natura pur di non essere tagliata fuori?
Diciamo che è un po’ entrambe le cose, è un po’ una maniera imbranata di giocare con cosa vuol dire diventare una ragazza. Io a 15 anni non sapevo cosa volevo diventare, tantissimi amici non si sentivano ancora a proprio agio. È un periodo molto delicato e anche molto mutevole, differente per ogni ragazza. A un certo punto cominciano a succedere cose che non capiamo, cominciamo a cambiare idea anche verso ciò su cui prima non eravamo d’accordo.
Questo avviene soprattutto nel passaggio dalle medie al liceo, come ho potuto capire anche facendo il casting, ragione per cui non abbiamo scelto ragazzi del liceo, perché una volta entrati in quella fase cominciano già a giocare un ruolo, che è molto connesso con il tipo di musica che ascoltano, con il tipo di compagnia che frequentano, anche se questo dura magari due, tre, sei mesi e poi cambiano di nuovo. Mentre alle medie i ragazzi cominciano a vedersi la barba, gli ormoni, i brufoli, le ragazze il seno. Tutto comincia a crescere, loro non sanno cosa succede, è una confusione già di per sé, senza che la società ci aggiunga del suo.
Dopo che Iman decide di mentire sulla sua gravidanza, il mondo della scuola, che dovrebbe rappresentare la prima istituzione a insegnare l’accoglienza, le fa muro, considerandola un problema da dover gestire. Se anche la scuola fallisce, allora su cosa bisogna puntare per cominciare questo processo di inclusione e cambiamento?
La scuola è quella con cui si deve cominciare, perché rappresenta lo Stato, è quel legame tra lo Stato e la famiglia. Infatti una delle ragioni per cui ho voluto che Iman crescesse in una famiglia che la sostiene, dove lei può trovare l’amore, una che ha anche altri pesi sulle spalle, come esigenze economiche, un piccolo appartamento, che sia molto realista e realistica dal punto di vista dei problemi che incontra nel quotidiano. Però la scuola è ciò che lega la politica, la gestione sociale, e quella dell’intimità e della sessualità che poi ognuno sviluppa e vive a proprio modo. Non possiamo negare che ci sia una parte della politica più sociale. Che detta un approccio a certe cose, certi comportamenti, come anche l’influenza della religione e della Chiesa.
Oltre all’empatia che suscita Iman, il personaggio che in fondo sembra ridisegnare lo schema imposto è quello di sua madre. Una donna capace di indagare nell’intimo di sua figlia e non nella sua intimità, oramai alla mercè del pettegolezzo crudele. E’ la giusta spalla per un’eroina in fase di crescita. Un outsider rispetto al sistema convenzionale, in grado di ascoltare, comprendere, assolvere e decidere di non soccombere passivamente. Potrebbe rappresentare l’Iman del futuro?
Sicuramente sì, perché è proprio per quello che lei è diventata indipendente; è brava a scuola, non è una ragazzina che crea dei problemi, che si ribella giusto per farlo, per attirare l’attenzione, è una che in realtà sa quello che è, sa difendersi e non è mai la vittima.
Ci vuole tutto un paese per allevare i figli, non è solo la famiglia. La madre ha paura per sua figlia, per le conseguenze che la società le può tirare addosso, però lei la protegge. Avere un desiderio sessuale a 15 anni è assolutamente normale per i ragazzi e per le ragazze. Solo che per i ragazzi è stato sempre permesso, è simpatico vederlo, mentre per le ragazze è stato sempre un tabù, una cosa di cui vergognarsi, di cui devono avere paura perché possono succedere certe cose.
Il mondo da cui Iman ha cercato approvazione finisce per stritolarla. Lo sbaglio non viene perdonato, la trasgressione innocente di una ragazza diventa un peccato da espiare. La salvezza per chi sceglie di rimanere fedele a se stesso è quella di abbandonare una lotta che in fondo logora solo le energie o di restare per combattere con ostinazione il regno dell’ipocrisia?
Con questo film non sono partita con l’idea di dare una soluzione, piuttosto di porgere delle domande, però, secondo me, per rimanere se stessi si deve combattere, altrimenti questo sistema ti mangia. E’ una questione di attitudine che si richiede ogni volta che c’è un pregiudizio, una persona a cui accade qualcosa, un amico da sostenere. È una maniera di mettersi al posto dell’altro e cercare di empatizzare al massimo e non farsi trascinare nel fango del conservatorismo.
Il film è stato candidato per la Bosnia come miglior film straniero agli Oscar 2023. A parte il mondo accademico cinematografico, come è stato accolto il suo film dall’opinione pubblica bosniaca? Da quegli insegnanti, genitori e ragazzi che lei ritrae nel film?
Molto bene, il pubblico aveva veramente bisogno di vedere qualcosa che lo rispecchi e i genitori di vedere un quadro complesso che parli dei loro figli. Ho ricevuto tantissimi messaggi di coppie che dicevano che avevano paura per i loro figli, ma di voler vedere qualcosa che dicesse la verità. Dove questo non avviene, di solito c’è una famiglia disfunzionale, dove crescono bambini problematici. Poi avevano bisogno di un dispositivo per parlare con i loro adolescenti. Tantissimi genitori andavano con i loro figli a vedere il film perché finalmente c’era qualcosa su cui appoggiarsi per discutere. Ovviamente il Ministero ci aveva proibito di fare un appello diretto alle scuole. Però gli insegnanti potevano portare individualmente le classi a vederlo e per questo è stato il film più visto dell’anno. Non parlo solo della Bosnia, ho avuto le stesse conversazioni in Tunisia, in Marocco, in Italia, in Croazia, in Grecia.
Dunque in questo senso sono molto contenta.