L’occupazione israeliana della Palestina, com’è noto, è una delle tragedie politiche mondiali irrisolte più scottanti di tutti i tempi, ed il cinema ha raccontato in molti modi storie personali e collettive legate alla convivenza forzata, ai posti di blocco, alle angherie dell’esercito israeliano ai danni dei civili inermi (spesso donne e bambini che si recano a visitare parenti, o vanno a scuola o in ospedale), all’odio che cresce, coltivato per le strade, giorno dopo giorno, fra ebrei ed arabi, all’ombra del muro divisorio costruito per isolare la Cisgiordania (in inglese, la cosiddetta West Bank). In tale contesto si colloca la nuova pellicola Omar del regista Abu-Assad – già noto per Rana’s Wedding e per il coraggioso Paradise Now – selezionata a Cannes nella rosa dei 18 candidati della sezione Un Certain Regard (la seconda più importante sezione in competizione) e presentata ieri al Festival con un’acclamazione di critica e pubblico: tale esito ha colpito favorevolmente il regista presente in sala, il quale ha dichiarato, dopo la prima del film, di sperare che il successo porti anche attenzione all’opera, benché la sua prima ‘audience’ rimangano sempre i palestinesi, i giovani ed il mondo arabo. Il film può inoltre vantare, oltre ad una solida storia ben girata con personaggi credibili e dotati di una certa originalità, una produzione interamente palestinese, sia come cast e troupe e sia come finanziamenti.
Omar è un ragazzo che lavora come panettiere e vive in Cisgiordania: ogni giorno va oltre il muro, salendo su e giù per una fune presa di mira dall’esercito, per visitare i suoi più cari amici, Amjad e Tarek, e la sorella di quest’ultimo, Nadia, della quale è innamorato e, sembra, contraccambiato. I tre giovani si incontrano, scherzano, amano il cinema moderno e sognano un’altra vita ma, al tempo stesso, odiano gli occupanti e si esercitano a sparare e a lottare nei gruppi di resistenza dei territori. Uno degli ennesimi episodi di gratuita violenza, umiliazione ed intimidazione subito al check-point ad opera di militari israeliani, convincerà Omar e di suoi amici ad agire, ma le cose sfuggiranno loro di mano ed Omar verrà arrestato. Da qui la trama s’infittisce, fra politica, spionaggio, torture in carcere, veri o presunti tradimenti e triangolo sentimentale, con un ritmo serrato nelle scene d’azione come nel susseguirsi degli eventi incalzanti del quotidiano, a descrizione di una vita che brucia i suoi giovani, crea guerre fratricide e uccide la purezza, degli ideali e delle speranze, conducendo molti, da entrambe le parti, a gesti anche estremi.
Il regista ci racconta, con la naturalezza di chi conosce bene il suo tema, e senza annoiare (anzi scegliendo una cifra leggermente ironica), l’ordinaria follia che si dipana nei territori occupati, in un quotidiano che viola sistematicamente i diritti umani, le libertà personali ed il rispetto dell’altro, erigendo muri invalicabili fra mondi di per sé vicini. Il dialogo sobrio ma d’effetto, la forza della regia e la precisione del montaggio sono ben evidenziati nella pellicola grazie alla bravura dei giovani protagonisti (su tutti spicca Adam Bakri, figlio di Mohammed Bakri), che sprigionano energia e vigore come è proprio di chi vive intensamente per una causa, sognando una vita migliore, fino all’impatto con un reale destabilizzante.
Elisabetta Colla
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