Aliha Thalien, fuoriclasse promettente laureata in Cinema alla Sorbona, e che ha conseguito poi un Master alle Belle Arti di Parigi, ci prende per mano e ci accompagna delicatamente lungo le coste di Martinique. Un pezzo di terra silenzioso e assordante al tempo stesso. Piena di volti giovani, belli e cupi, felici e tristi, fissi come statue. Cosa fanno questi volti? Hanno un corpo? The body keeps the score direbbe Bessel van der Kolk, alludendo a un trauma post-coloniale quasi ereditario. Fisiologico. Mappato. “Does the rock scare you sometimes?” si chiedono i ragazzi attoniti, osservando il mare. E il mare non risponde, anzi. Come nel film Silence di Martin Scorsese, il mistico silenzio della natura diventa quasi cinico e crudele nel suo amoralismo ondivago.
Nos Iles: sinceri con noi stessi, dunque con il mondo intero
Cosa ci dice questo cortometraggio? Nulla. Dunque ogni cosa. Nichilismo allo stato puro. Una forma d’arte che usa la telecamera fissa. Si diventa artisti quasi pittorici. I personaggi, teatrali. Come osservare Manet dipingere un gruppo che si diverte la domenica a banchettare sul prato. Ci guardano, anzi, guardano oltre la telecamera, come Norma Desmond che si avvicina con passo da giaguaro verso di noi. Questo tipo di Cinema non usa la parola, ma la Natura, e il linguaggio dei giovani, che dice le cose più vere e spietate. Come un uragano. Annienta per creare.
“Mio padre ci ha abbandonati”
Sembra dividersi in tre mini-atti il cortometraggio: tre chiacchierate, apparentemente superficiali, ma molto profonde anche da un punto di vista narrativo. Nella prima abbiamo la spensieratezza. La chiacchiera sull’infanzia, la scoperta della vita. Nella seconda, il sesso nelle sue esplorazioni più mature: ménage à trois. Un soffio di vita, nella sua forma più dura però, inizia già a palesarsi: uno dei ragazzi svela l’abbandono del padre. Lui e sua madre da soli contro il mondo. Con la terza fase, l’ultima chiacchierata. Mentre prima si osservavano tutti e tre negli occhi, ora osservano il mare. Come se stessero dando la colpa a un’isola precisa, ultimo shot del film. Quell’isola è piena di insidie? L’isola di William Golding? Giovani condannati? Giovani ribelli? Giovani condannati a comunicare al vento? Dove sono gli adulti? Chi li ha portati in questo mondo dimenticato da tutti?
Molte domande, poche, e nessuna risposta, se non quella del vento
Il cortometraggio spaventa per la sua maturità comunicativa: è questo il Cinema che dura nel tempo, che emoziona, che pone più domande che risposte. Un’onda potrà anche sembrare come un’altra onda, ma ognuna è talmente singolare da diventare universale. Così come quei discorsi, che potrebbero esser stati benissimo pronunciati da personaggi shakespeariani. Il cortometraggio va oltre il linguaggio stesso. Silhouette sfocate a tratti, e l’inframezzarsi veloce di una moto che sale lungo il versante di una montagnetta. Due sequenze così spalmate lungo tutto il cortometraggio. La prima domanda naturale alla fine di tutto: Dove sta andando quella moto? E la seconda, una volta finiti anche i brevi titoli di coda: Dove stiamo andando?
Il cortometraggio partecipa al Linea d’Ombra Festival Salerno