Romano Montesarchio al Festival Lignano Noir 2024, dal 24 al 27 ottobre, dedicato allo scrittore noir Giorgio Scerbanenco. Abbiamo incontrato il regista dopo la proiezione in sala della sua opera prima come lungometraggio di finzione, Glory Hole.
Romano Montesarchio, il suo film è un personaggio in cerca di redenzione. Mi ha fatto venire in mente subito Paul Schrader. C’è molto della ricerca del perdono attraverso un processo di dolore autoinflitto, quasi un autocastigo.
Sì, mi verrebbe da dire: “Mi ha scoperto”. Ogni film ha dei riferimenti, come appunto Schrader o Abel Ferrara. Da Schrader in particolar modo ho attinto molto, da questo bisogno di redenzione interiore. A un certo punto si arriva al cospetto delle proprie fragilità, dei propri errori e quando si è a quel punto non si può far altro che i conti con sé stessi, in solitudine: una sorta di autoflagellazione. Il mio personaggio Silvestro fugge da qualcosa di materiale, dal Clan per il quale lavora, per ciò che ha commesso. Ma nella solitudine del bunker fa i conti con quelli che sono stati gli sbagli di una vita, detonati dall’amore e dall’inadeguatezza, e ancor prima fugge dalla bellezza. Questo è stato uno dei moventi che mi ha spinto a raccontare questa storia.
Ricollegandomi alla parola bellezza, nella citazione di Maria Carla Casillo, che nel film interpreta Alba, “non mi meritavo un po’ di bellezza?”, cita Dostoevskij. La bellezza salverà il mondo, l’amore, trovare il bello che suscita un forte sentimento attraversando una propria apocalisse. C’è molto di questo nel suo film, è molto introspettivo.
Assolutamente sì. Sono sempre stato profondamente d’accordo con questa affermazione. L’unica via di salvezza per il mondo, ancor più per un mondo corrotto, può essere solo la bellezza. Uno dei motivi per cui esistono le criminalità, oltre all’aspetto sociale, è la mancanza di legame con la bellezza, con forme di amore puro, come potrebbero essere l’arte e la cultura in generale. Tant’è che il personaggio quando si trova di fronte ad Alba, alla sua bellezza, ha come primo istinto ripudiare il sentimento, ma nella clausura del bunker, nella sua solitudine lo elabora e lo porta a una forma di redenzione. C’è da dire che in tutti gli studi che ho fatto negli anni riguardo ai personaggi delle criminalità, persone sempre scaltre, ciniche, devote al potere e al denaro, ho trovato nel loro punto debole l’amore. Nel momento in cui si innamorano crollano e non è un caso nella storia che molti latitanti siano stati arrestati nel momento in cui incontravano le loro amanti, nei loro momenti di massima vulnerabilità.
Romano Montesarchio sul set di Glory Hole
Quanto, e se, è stato difficile il passaggio da documentarista, quindi osservatore esterno della realtà, a regista di lungometraggi di finzione?
Paradossalmente l’ho trovato più facile. Diverso sicuramente nelle dinamiche dovendo organizzare la troupe, tutto ciò che riguarda trucco, scenografie, fotografia, attori da seguire e preparare. Per girare una scena si impiega molto più tempo rispetto all’immediatezza del documentario. Però il documentario esige un rigore diverso, in ordine di pazienza, di tempo e di capacità di osservazione. É più facile che un documentarista faccia un film di finzione che un regista di finzione ad un certo punto diventi documentarista. E comunque per raccontare una storia, ma bisogna attendere che la scena accada, bisogna essere pronti a girare consapevoli che sarà una scena non modificabile. Nei documentari sei solo, nei lungometraggi sei supportato da sceneggiatori e dalla troupe. Poi, in particolar modo per me, che da sempre sono stato spettatore e amante di cinema, l’ho studiato, ho iniziato la carriera come operatore e sono insegnante all’Accademia di belle arti di Napoli non è stato niente di nuovo. Lo sforzo è stato quello di misurarsi con gli attori, forse la cosa più complessa, ma anche più divertente e stimolante.
Tornando al film, l’uso dei colori mi ha molto colpito. Il bianco, il verde, il rosso, mi ha ricordato molto Hitchcock, soprattutto nella citazione finale a Il sospetto. C’è molto dei grandi Maestri del cinema.
Sì, assolutamente, hai citato due miei grandi riferimenti: Kubrick e soprattutto Hitchcock. L’attenzione cromatica di una storia suggerisce questioni emotive profonde. Ho usato molto colori freddi nel bunker, così come il bianco, che rappresenta il candore, l’ho voluto introdurre all’inizio del film a rappresentare la nascita del mio personaggio. In un mondo sostanzialmente puro, asettico come negli ospedali, attaccato a una bombola di ossigeno a voler indicare il cordone ombelicale. Il rosso è il momento in cui ci sono due snodi narrativi importanti, cioè il suo ingresso nel bunker e la sua metaforica uscita, dove entra in un ulteriore mondo straordinario, quello del suo inconscio, che lo induce a capire quale è stato il suo maggiore delitto. Un colore sanguigno, volutamente visivamente forte.
Si parla di crisi della cultura in Italia. Secondo Lei quanto oggi il cinema riesce a comunicare messaggi forti, come il suo all’interno del suo film?
É evidente che c’è una crisi culturale che vale per la letteratura, per la televisione così come per il cinema e l’arte in generale. Lo dimostrano tante serie e film che vanno benissimo come incassi, ma sono vacui nel messaggio, prodotti per la massa. C’è una discreta produzione di alti contenuti che faticano però a essere visti. C’è stato il passaggio dal grande schermo al televisore, per finire oggi ai tablet e ai cellulari e questo ha variato tantissimo il livello di attenzione di chi guarda. É come aver la pretesa di guardare un’opera d’arte anziché al museo in un foglio stampato, in modo molto riduttivo. É come dire che la Sindrome di Stendhal non esiste più. Si producono ancora film importanti in Italia, ma bisogna cercarli nei Festival, nei Cineforum, sono messi in ombra da un sistema che bada ad altro. La crisi è più distributiva. In molti paesi del nord Europa, così come in Francia, Germania, ci sono politiche diverse, che sono attente ai film d’autore. Spero che il meccanismo dei Festival, che è l’unico ancora predisposto a salvaguardare questo tipo di cinema, non si adegui al mercato.
Francesco Di Leva in Glory Hole di Romano Montesarchio
Nel J’accuse finale del protagonista c’è una citazione, tra le altre, al Seven Up. Vuole fare un’anticipazione in merito?
Sì , Seven Up è un mio pallino. Una grande discoteca del basso Lazio, fra le più grandi d’Europa, che è esistita dalla fine degli anni ‘70 fino alla chiusura nel 1985. Una discoteca, ma nello stesso tempo la più grande lavatrice di denaro della Camorra proveniente dal narcotraffico. Una cultura criminale che si è mascherata da cultura pop. É un conflitto che mi ha interessato molto, così ho iniziato a raccontarne la storia, ci sto lavorando. Mi piace mettere in ogni film un riferimento a ciò che farò dopo, un lavoro che ho già in mente, e in questo caso in Glory Hole ho voluto citare i divanetti del Seven Up.
Abbiamo scoperto qui il marchio, si può dire la Firma, una delle peculiarità di Romano Montesarchio