66 Festival di Cannes: “Borgman” di Alex van Warmerdam (In Concorso)
Borgman, dell’olandese Alex van Warmerdam, appare come un calcio all’occhio e una sferzata interiore di pari energia. Un disvelamento, che raggiunge le nostre viscere inconsce senza sconti e mediazioni.
Entro a Festival avviato e mi immergo subito nella Competizione ufficiale con una pellicola spiazzante. Borgman, dell’olandese Alex van Warmerdam, appare come un calcio all’occhio e una sferzata interiore di pari energia. Un disvelamento, che raggiunge le nostre viscere inconsce senza sconti e mediazioni. L’eclettico regista olandese nato dal teatro, da sempre attratto da uno scavo umano nel quale si confronta con gli innati e repressi lanci nel vuoto di un perdersi che è sfogo di istinti votati ad un essere se stessi nella immersione nel caos primoridale che ci contiene – e che abbiamo imparato a dominare per sopravvivere come specie – , ha partorito il suo ultimo lavoro stimolato dalle letture del marchese De Sade (leggo in un’intervista rilasciata), sia dei suoi scritti che dei saggi che lo hanno riguardato.
Camiel Borgman (il ‘paralizzante e camaleontico’ Jan Bijvoet) è uno strano essere: vive sottoterra come un clochard, si aggira nel pezzo di realtà che tocca come un alieno, condivide uno status di ‘demone risvegliato’ con altri pochi marchiati esseri… Si imbatte in una porta di una villa e nella vita di una famiglia espressione lucida e visiva di quella ‘perfezione’ che è esattamente opposizione al caos, (falsa) sicurezza di dominarlo, (falsa) certezza di impossibilita’ di perdita. Marina (una Hadewych Minis erotica a ‘pelle e mente’, magnifica nel rendere il suo stato di consapevole e combattuto divario tra dovere ed essere), suo marito Richard (un ‘empatico bastardo’ Jeroen Perceval), e i loro tre splendidi piccoli figli. Tutto è normalmente inquietante, a cominciare dall’isolamento in cui la casa è immersa, e dal tenore, alto e asettico, di vita che si consuma: baby sitter che parla in inglese ai piccoli, ogni confort, lusso e benessere ‘paradisiaci’. Eppure subito avvertiamo una frizione tra apparenza e realtà: Richard ‘brucia’ in sfoghi violenti di totale nero mentale. Picchia, sferra calci, con la voglia repressa di far male, uccidere. Razzista, classista, possessivo e maschilista, comprime e reprime un marciume di essere umano totale.
Marina è la più perversa. Avverte il limbo in cui tutto è contenuto – Spesso sento irreale chi ho davanti… Siamo stati fortunati, in qualche modo verremo puniti… confessa con paura e tenerezza al marito – il caos che è dentro ognuno di noi, ma lo teme. Lo esorcizza, sognandolo: si sveglia, scossa da un inconscio che tramuta il rapporto sessuale e d’amore in accesa violenza subita. Odia il marito, dopo ogni sogno ne prova un disgusto infinito. Ma in realtà è quello il piacere capace di scuoterla e ne è terrorizzata. E riconosce immediatamente Borgman, in qualche modo percepisce la verià’ che porta addosso, e lo accoglie clandestinamente in villa, dandogli da mangiare nella depandance. Ma non sa a cosa andrà incontro… Van Warmerdam lascia volutamente aperti alcuni spiragli narrativi, non volendo renderci una verità umana ed esistenziale che neppure lui sa pienamente comprendere. Tutto si mescola, bene e male (se vogliamo utilizzare questa classificazione) sono inscindibili, vasi comunicanti di una realtà che sotto la superficie cela un buco nero infinito…
Si sorride, anche, ma è un riso sadico, che ci getta in faccia e spudoratamente ciò che siamo. Il minimalismo visivo ma penetrante della macchina da presa, attenta a vivificare, e nelle plastiche messe in scene che riproduce, e nello scorrere calmo e imperturbato dentro gli ambienti spaziali ed emotivi che attraversa, l’inquietudine e l’orrore di una fissità apparente, rende al meglio una tensione impassibile e feroce. Consapevoli e neri.
Maria Cera
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