Una giornata all’insegna degli antipodi stilistici e tematici questa prima con cui ha avuto inizio la 66esima edizione del Festival di Cannes. Sulle note scalpitanti frutto di una mescolanza attualizzante di jazz e rap dello sfarzoso The Great Gatsby di Baz Luhrmann, presentato nella sezione non in competizione, ha avuto il via quest’edizione bagnata del festival con Leonardo Di Caprio, Tobey Maguire, Carey Mulligan e Baz Luhrmann tra i primi a calcare il montée de marche. La magnificenza e l’eccesso come marchio di fabbrica del regista australiano, il quale non rinuncia a un gusto dell’immagine che si costruisce in stretta simbiosi con i paesaggi sonori assemblati, sono presto contraddetti dal secondo film proiettato nella giornata in apertura, il primo dei venti in concorso intitolato Heli e firmato da Amat Escalante.
Il regista messicano, avvezzo alla croisette che l’ha visto partecipare nella sezione Un Certain Regard nel 2005 con Sangre e nel 2008 con Los Bastardos, ritorna questa volta col il suo cinema antropologico di matrice quasi documentarista concorrendo per la Palma d’Oro. La storia ruota intorno all’appena dodicenne Estela e al vortice di violenza e desolazione che risucchia la sua famiglia composta da padre, fratello, cognata e nipote. Estela è innamorata di Berto, un giovane cadetto della polizia cinque anni più grande di lei, con cui progetta una fuga d’amore e un matrimonio. Heli, il fratello, li scopre e cerca di impedirne il piano, non senza disfarsi prima della cocaina che Berto aveva nascosto nella loro modesta dimora. Da quest’istante la famiglia di Heli viene coinvolta in un turbinio di eventi poco chiari e mortiferi dai quali non vi è possibilità di ritorno.
La città di Guanajuato con i suoi paesaggi secchi e desolati interrotti da una fabbrica di auto dove Heli lavora come operaio è un personaggio attivo e condizionante, dilaniata da povertà e violenza impone senza misericordia agli abitanti i suoi ritmi e le sue ferite. Escalante decide di mostrarci fedelmente questo mondo non per scioccare ma per imprimere nella mente i fatti assurdi a cui i suoi connazionali sono esposti tutti i giorni senza ormai esserne troppo sorpresi, senza sadismo sebbene non si/ci risparmi le torture più spietate. La storia circolare, che si apre e si chiude con un ragazzo lasciato penzolare esanime su di un ponte, è il suo chiaro avvertimento sulla crudeltà dei fatti narrati, acuita da uno stile realistico confinante con le tecniche documentaristiche apportate dal contributo del direttore di fotografia Lorenzo Hagerman, il cui background affonda proprio nel genere.
Cinema antropologico, dicevamo, misto a un’autorialità che si spinge nelle trame sociali per sventrarle, masticarle e comprenderle a fondo prima di rappresentarle, dal forte rimando al cinema del reale firmato Brillante Mendoza. Lontano dal puro compiacimento dell’esibizione forzata della violenza-tortura praticata da molti suoi colleghi, Escalante lascia parlare senza censura la ferocia dei luoghi declinata nella vita di persone comuni, senza mezzi, trascinate inconsapevolmente verso un destino di annientamento personale e di sconfitta sociale. Vicino in qualche modo all’amico e produttore di Heli Carlos Reygadas, di cui l’anno scorso abbiamo ammirato sconcertati Post Tenebras Lux, Escalante è un creatore di atmosfere paranoiche e disturbanti, fiuta i meccanismi assurdi del reale per inoltrarsi nei suoi misteri nel tentativo di risolverli e chiarirli, non rinunciando a confonderci per strada giocando a dilatare e a comprimere gli effetti di uno stato psicologico alterato.
Francesca Vantaggiato
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