La cosa migliore è il tuo primo film di finzione. Rispetto al cinema documentario, com’è cambiato il tuo approccio registico? E com’è stato dirigere gli attori, possiamo dire, per la prima volta?
Federico: È cambiato tutto, però è stato molto bello. Penso di non aver avuto l’arroganza di dire: ‘Adesso vi insegno io, fate come vi dico’. Piuttosto ho detto ai ragazzi: ‘C‘è una bella storia, raccontiamola insieme‘. Ho scelto gli attori ma anche le persone in primis che potevano arricchirla. É stato un lavoro collettivo. Chiaramente, alla fine, decidevo io la direzione da seguire in quanto regista, ma ho preso tantissimo da loro. Mi hanno aiutato, sono stati bravissimi. Secondo me è bello dire, e non per falsa modestia, che il film si fa in tanti. Se c’è un’apertura verso gli attori e verso le persone che gravitano attorno al film, alla fine il risultato è migliore. Inoltre abbiamo passato diverso tempo in Marocco, in Trentino, cercando di capire i luoghi in cui avremmo girato, non abbiamo raso tutto al suolo e imposto la nostra visione.
Per quanto riguarda la scelta di Luka per il ruolo di Mattia, l’ho visto nel film Non odiare, in cui metteva in atto un tipo di violenza diverso, ma nel quale intravedevo già qualcosa. Poi c’è stato il Covid e tutto si è fermato per un anno. Quando abbiamo ricominciato con la lavorazione del film, l’ho ritrovato e ho detto: ‘Ok, è lui, non può che essere lui’. Siamo io e Luka dall’inizio, forse è l’unica cosa che non è mai cambiata nel film.
La cosa migliore: appartenere

Mattia tenta di trovare se stesso anche attraverso l’appartenenza. Appartenere a un gruppo vuol dire essere visti, riconosciuti, diventare parte di un progetto più grande. Luca, credi che a necessità di appartenere a qualcosa o a qualcuno accomuni i ragazzi d’oggi? Ti senti vicino a questa realtà? Cosa c’è sotto?
Luca: Io penso che a vent’anni, o comunque intorno a quell’età, ognuno di noi cerchi di trovare la strada che lo porti lontano. Mattia ha una mente molto fragile. Vive un lutto molto forte, che si trascina per tutto il film. Quindi, diciamo che si fa modellare, manipolare per un ideale sbagliato; poi viene salvato dall’amicizia. É un personaggio che ho cercato di capire, innanzitutto. Federico dice che mi ha visto in Mattia; però io, in realtà, ho fatto tanto lavoro per arrivare al personaggio e portarlo sullo schermo. Nel senso che ho cercato di collegarmi a una solitudine che ho vissuto sulla mia pelle. Adesso riesco a gestire certi sentimenti, a relativizzare quello che mi accade. Sapere che non esiste solo quello che provo, ma che c’è anche altro. Invece Mattia ha una visione meno a 360 gradi, è più lineare, segue una linea retta, quindi non vede tante vie di uscita. Non volevo fare un personaggio ‘figo’, interessante. Ho davvero cercato d’ immedesimarmi in un ragazzo che stava vivendo quel genere di situazione.
Il tema dell’appartenenza per il regista
Federico, perché il tema dell’appartenenza è così importante nel tuo cinema?
Federico: Mi sembra un dato fondamentale nell’epoca in cui viviamo. Dico delle banalità, ma siamo sempre più intenti a competere e a schiacciare l’altro, prevalere, concorrere. Gli esseri umani hanno sempre avuto il desiderio di creare una collettività. Per cui, Mattia negli anni ’70 si sarebbe forse iscritto al partito comunista o alla parrocchia. Adesso c’è un vuoto gigantesco, veramente enorme. É interessante parlare dell’Islam come una religione, un sistema di appartenenza che attrae molte persone. Prima era più evidente in altri paesi, ora anche in Italia. In realtà l’Islam è semplicemente molto inclusivo. Se vuoi puoi entrare dentro e trovare quello che vuoi, il misticismo o una giustificazione per la violenza ad esempio. Non è un caso che molte persone provenienti dalle periferie italiane si stanno convertendo. Si tratta chiaramente di una fase di passaggio. A prescindere da questo, c’è un forte bisogno di collettività, che può voler dire andare allo stadio o mille altre cose; però è evidente che c’è un bisogno non soddisfatto. La storia di Mattia è una delle storie possibili.
Costruzione del personaggio
Tra i temi del film, c’è, a mio avviso, anche quello dell’incomunicabilità. Tra Mattia e i genitori, Mattia e i compagni di scuola, e con la ragazza di cui si innamora. Come avete costruito l’interiorità del personaggio?
Federico: Inizialmente ho immaginato Mattia, poi ho scoperto che Luka è una persona e un attore in grado di lavorare, aggiungere, creare. C’è stata chiaramente un’idea iniziale che lui stesso ha sviluppato attraverso la sua professionalità e il suo vissuto personale. Quindi adesso lascio la parola a lui.
Mattia: Quando mi è stato proposto il provino, avevo tanta voglia di differenziarmi da cose che avevo già fatto. Avevo quindi il desiderio d’incontrare Federico per un progetto che poteva darmi questa opportunità. Ho lavorato al film molto cupamente, nel senso che ho tentato di vivere il più possibile la condizione del mio personaggio. Il set è stato difficile, vivevo un’angoscia quotidiana, mi sono anche ammalato durante le riprese. Stavo vivendo male, non mangiavo molto. Ma penso che anche questo ‘trattarmi male’ mi abbia mentalmente stimolato a portare avanti la sofferenza di Mattia. Non ho messo alcuna distanza tra me e lui, proprio perché sentivo che era un personaggio che poteva raccontare una storia ai miei coetanei. Per cui ho sentito una responsabilità addosso. Non potevo abbassare la guardia.
Federico: Luca ha girato le ultime scene del film in una condizione mai vista, ha introiettato tutto il dolore dentro di sé. Una prova davvero impressionante.
Marocco

Com‘è stato girare in Marocco, come vi siete preparati?
Federico: Sono andato in Marocco molte volte. Prima avevamo una visione generica di dove e come girare; poi, una volta arrivati lì, sono nate idee nuove a contatto con Tangeri. Abdessamad, l’attore che interpreta Murad è italo-marocchino, per cui conosce benissimo il luogo e ci ha guidato nel percorso. C’è stata sicuramente molta preparazione nel tentativo d’ immergerci nella cultura, ma anche una dose d’improvvisazione. Abbiamo girato in Marocco a fine film. Quindi gli attori avevano ormai instaurato un rapporto di amicizia e potevano concedersi la libertà di sperimentare tra di loro e in un certo senso ‘vedere cosa fanno i personaggi’. Abbiamo filmato con attori professionisti, gente comune, bambini, cibo, rumori dalla strada. Una miscela di componenti che, a mio avviso, rappresenta un modo interessante di fare cinema. Scrivere un film, prepararlo, ma lasciare che qualcosa della realtà entri.
Mattia: il Marocco è stato l’unico momento in cui sono uscito dal tunnel nero che mi ero creato. Come Mattia, vedevo quei posti per la prima volta, con lo stesso stupore. Mi sono lasciato andare.
La cosa migliore
Nel tuo film c’è sempre una scelta da fare. Tra la comunità mussulmana e l’estremismo islamico; la scuola o il lavoro; il bene e il male. Allora ti chiedo, citandoti, qual è la cosa migliore?
Federico: a film finito ciascuno può dare la risposta che vuole; però la domanda è esattamente quella che dici tu. Ogni volta la vita ti pone l’opzione A e l’opzione B. Forse la cosa migliore è l’amicizia, la vita, ma è facile dirlo, prima bisogna sbattere la propria testa nelle cose, per poi avere la forza di capire, scegliere. Quindi è un titolo che rimane volontariamente aperto.
Mattia: La cosa migliore del personaggio è sicuramente l’amicizia. Nel momento più basso della vita arriva un amico a salvarti, qualcuno che ti dice che andrà tutto bene.
La cosa migliore: la recensione a questo link