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Squarci di settima arte: Il grande cinema italiano dopo il neorealismo
Il grande cinema italiano dopo il neorealismo: Fellini, Visconti, Antonioni
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12 anni fail
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Stefano OddiIl 1960 costituisce un anno di svolta per la storia della nostra nazione, un momento topico che segnò simultaneamente l’inizio e la fine di un mondo, di una cultura, di un’epoca, uno spartiacque storico che significò insieme crisi e rinascita, vita e morte. Dieci anni dopo il giro di boa del secolo, l’Italia perse definitivamente quella caratterizzazione contadina e rurale che l’aveva resa -secoli prima- il luogo del cuore ctonio e selvaggio dei grandi romantici per affermarsi come una delle sette maggiori potenze industriali del mondo, in seguito a un decennio di crescita economica convulsa, folgorante e vertiginosa. Una rivoluzione irripetibile ed epocale che allargò drasticamente la frattura mai sanata tra Mezzogiorno e Grande Nord, lanciando questo in un febbrile e glorioso ingresso all’interno di quella modernità nemmeno auspicabile dopo i terribili contraccolpi della Seconda Guerra Mondiale.
E proprio nel 1960, l’acume e la lungimiranza di tre grandi autori italiani permise di scandagliare su celluloide il profondo coacervo di ambiguità, contraddizioni e zone d’ombra che quel decantato progresso portava con sé, dietro l’immagine florida e televisiva di un mondo finalmente capace di ricominciare a crescere.
Quell’anno a Cannes Federico Fellini vinse la Palma d’oro con La dolce vita e Michelangelo Antonioni ottenne il Gran Prixper L’avventura. Pochi mesi dopo sulle rive dell’Adriatico un pubblico furibondo gridò allo scandalo -in quella che è rimasta la più contestata edizione della Mostra del cinema di Venezia- in seguito alla stupida decisione della giuria di premiare con il Leone d’oro Il passaggio del Reno di André Cayatte, relegando a Luchino Visconti e al suo grandioso Rocco e i suoi fratelli un Leone d’argento che seppe più che mai di amaro e stolido contentino.
Quel conta, al di là dei palmares, è che le tre voci più internazionalmente acclamate del nostro cinema produssero durante una così rilevante congiuntura storica tre incredibili capolavori capaci di analizzare -in modi drasticamente diversi ma con una lucidità senza pari- la rinnovata “situazione italiana”, scavando sotto la dorata superficie dello stupefacente cambio di rotta economico per captare i gravidi segnali di un disagio più profondamente intimo.
Visconti affrontò con il suo Rocco l’infuocata questione della sperequazione secolare che divideva (e divide) nord e sud raccontando la storia di una famiglia lucana che, dopo la morte del capofamiglia, tenta la fortuna emigrando a Milano ma vive sulla propria pelle una crisi alienante che conduce i propositi di riscatto al fallimento. Se i protagonisti de La terra trema (in relazione al quale Rocco e i suoi fratelli vive un’ideale continuità) finivano schiacciati dall’inevitabile pressione della miseria, la disgregazione della famiglia Parondi (quella di Rocco, per intenderci) è causata dall’opposto ma complementare peso della ricchezza, quello dell’industrializzazione, dei modelli di vita borghesi nei confronti dei quali gli ex-contadini si sentono distanti e alienati. Ciò che Visconti mise in luce con il suo capolavoro fu in realtà una delle contraddizioni più dirette del rapido boom economico che trasformò l’Italietta contadina in una delle più grandi potenze del mondo: il grande e tragico scarto che si produsse tra la forma di una società economicamente all’avanguardia e una mentalità popolare ancora ingenua e arretrata, cullata su valori arcaici e non adeguati al ritmo di una nazione meccanizzata. Visconti intendeva evidenziare come la frenesia calcolatrice e gelida di una realtà nuova non potesse che stridere con i vecchi valori di una società al tramonto: il caldo focolare, l’amorevole candore familiare, i naturali ritmi della terra, delle colture, il lento incedere delle stagioni lasciavano inevitabilmente il passo ai monolocali freddi, alle strade innevate e nebbiose, ai ritmi industriali della catena di montaggio o dei turni di notte, al peso ingombrante di una televisione che proponeva modelli falsi e ipocriti. Il risultato di questa discrasia insanabile era una sofferta rincorsa all’adeguamento massificante (quella del Simone di Renato Salvatori con apice in una follia rancorosa e omicida) o tutt’al più l’alienazione, connessa alla dolorosa convinzione dell’impossibilità di comprendere il mondo e alla necessità di accettarne le regole.
Contemporaneamente ne La dolce vita, quello che è il film-spartiacque della sua carriera (il perché lo vedremo in seguito), Federico Fellini fotografò quella stessa Italia in bilico tra modernità e una comune coscienza ancorata al passato, penetrando l’universo di quegli stessi modelli borghesi a cui i protagonisti di Visconti soccombevano, seguendo passo passo il percorso di decadimento morale di Marcello Rubini, cronista mondano in una Roma luccicante e notturna che ha perso la propria identità fondendo sacro e profano: insieme madonna e puttana, madre e amante, paradiso e inferno. Il tutto all’interno di una rivoluzionaria scansione narrativa che procedeva per blocchi diegetici, simboli e nuclei tematici.
Già l’ironico titolo evidenzia la volontà del cineasta riminese di dissacrare -a tutti i livelli- quel mondo moderno che ha perso la sua innocenza, fagocitata dal luccichio dello spettacolo, dall’edonismo frivolo e superficiale in cui il protagonista si muove, dimenticando le sue profonde aspirazioni. Si passa senza sosta di marciume in marciume: da un’apertura dominata da un jet privato che trasporta per i cieli di Roma una statua del Cristo (in una volontà mai così scopertamente radicale di desacralizzare la santità cattolica su cui la nostra nazione si fonda) alla sequenza del finto miracolo, in cui un gruppo di bambini annunciano di aver visto la Madonna solo per attirare le curiose televisioni in cerca di scoop, dalla sognante e celeberrima scena della Fontana di Trevi in cui la Ekberg fonde in sé -come una Roma in miniatura- il divino e il carnale, il santo e il depravato, il bello e il viscido, al paradigmatico blocco diegetico dell’amico intellettuale, una sorta di grillo parlante che, di fronte al decadimento inarrestabile di un mondo che ipocritamente si dichiara “nuovo” e “migliore”, sceglie la via del suicidio, fino alla finale, memorabile e quanto mai significativa immagine di un Mastroianni inginocchiato sulla sabbia che all’ultimo bivio di redenzione possibile, fa cenno a un’innocente ragazzina simbolo di purezza di non riuscire a comprendere le sue parole e, voltandosi spaesato, si dirige verso i membri di una società che si configura sempre più come quell’inquietante carcassa di mostro marino che domina la riva.
E infine L’avventura: svolta, summa e paradigma fondamentale dell’opera di Michelangelo Antonioni, cantore insuperato delle profondità insondabili dell’animo umano, dello sconvolgimento operato in questo dall’ambiente e dalla sua brutale modificazione, imprescindibile esponente di quel cinema moderno a cui già ho accennato nei precedenti episodi di questa rubrica, caratterizzato in primis da una crisi della narrazione tradizionale. Che nei suoi film si traduce in indagine profonda delle psicologie umane, autoriflessività, proliferazione di tempi morti e crollo della causalità forte.
La pellicola in questione si situa in quella riflessione urgente sulla contemporaneità che già permeava i film di Visconti e Fellini appena analizzati ma lo scandaglio operato dall’autore ferrarese è più che altro legato all’analisi di una crisi intima, di una lacerazione interna, di una frattura soggettiva che conduce all’isolamento, alla diffidenza e all’incomunicabilità, il tutto in una struttura che gioca sulla metafora e il simbolo mentre tenta di sovvertire i canoni di quel cinema tradizionale rigorosamente fondato sulla successione di eventi forti, la trama, l’azione, l’evento.
La storia si riduce infatti a poche briciole: durante una gita in yacht, la protagonista Anna (Lea Massari) scompare tra i sassi delle Isole Eolie e nel tentativo di ritrovarla Claudia, la sua migliore amica (Monica Vitti) e Sandro, il suo fidanzato architetto (Gabriele Ferzetti), si mettono in viaggio tra le angolose vie della Sicilia. A poco a poco i due si innamorano e il mistero della sparizione viene dimenticato senza essere risolto (quanto sia rivoluzionario il fatto che un protagonista scompaia dalla scena senza più riapparirvi dopo un quarto del film lo si comprende dal fatto che nel cinema classico il personaggio era il depositario primo e ultimo del senso dell’opera e un’infrazione come quella di Antonioni era assolutamente impensabile). Una volta approdato in Sicilia comunque il film prende a concentrarsi sulla relazione che nasce tra Sandro e Claudia, attraversa i suoi contorni frastagliati, le ascensioni passionali come le discese nell’abisso dello spleen, gli sguardi rotti, le incomprensioni, i silenzi. In pratica se nei film sopracitati di Fellini e Visconti le contraddizioni della “nuova era” erano palesate nella diegesi delle storie raccontate, Antonioni rende la trasformazione della nazione in modo più criptico, austero, allegorico. Il passaggio di consegna tra la donna che sparisce e quella che resta e prende il suo posto altro non è che il riflesso della metamorfosi che l’Italia compie a cavallo tra anni ’50 e ’60. La Anna di Lea Massari è la tipica bellezza italica, contadina, mediterranea: mora, prosperosa, legata a una famiglia opprimente e una fede potente nelle istituzioni (una Bibbia è l’unico traccia di sé che lascia in cabina prima di sparire). La Claudia di Monica Vitti è invece esponente di una bellezza nuova: bionda, lineare, nervosa, disillusa, i cui tratti sembrano incarnare la freddezza e il rigore del design industriale. L’avventura del titolo è allora quella di un nuovo amore, vissuto in un nuovo mondo e in un diverso contesto storico-sociale ma soprattutto quella di una nazione. Di un paese pronto a tuffarsi nell’insidioso ma attraente abisso della modernità industriale (e consumistica).
Dunque, tre film per un crocevia storico-sociale. E tre autori diversissimi, capaci di scrivere le pagine più intense e monumentali del nostro cinema dopo l’esperienza del neorealismo. Tre universi eterogenei che tenterò di delineare in questo quinto episodio, tornando indietro prima di quel fatidico 1960 e superandolo di nuovo cercando di far sfumare nel lampo di una carrellata la -ahimé- non riassumibile grandezza delle loro opere.
(Ri)cominciamo allora con Visconti, di cui già ho avuto modo di parlare nell’episodio precedente, riferendomi all’apporto sostanziale dato da Ossessione alla genesi del neorealismo e -per converso- al distanziamento (spesso poco analizzato) operato dai successivi La terra trema e Bellissima nei confronti della rivoluzionaria operazione di rinnovamento inaugurata da Rossellini, al loro legame con un substrato più intimo, a quell’universo di temi, modelli e archetipi profondamente personale che Visconti elabora in modo estremamente rigoroso proprio dopo il film con la Magnani, a partire da metà anni ’50. Una poetica fondata sull’imperfetta dicotomia tra corpo e ideologia, carne e pensiero politico, due polarità che attraversano tutto il cinema di Visconti attivando una relazione continua di attrazione e respingimento, fusione e urto drammatico. L’attenzione appassionata e sublimante verso la fisicità umana è sempre accompagnata da un occhio più critico e lucido che tenta di leggere la realtà nei termini di una lotta di classe, secondo la lezione marxista ereditata dal mitico Jean Renoir, per cui Visconti fece da aiuto-regista nei primi anni di apprendistato cinematografico. Corpo, sangue, erotismo e sudore vivono dunque in simbiosi o cozzano drasticamente con ideali di progresso, indipendenza e libertà, all’interno di un’opera permeata dell’eterogenea e sconfinata cultura del cineasta milanese, imbevuta delle più grandi fonti letterarie italiane, francesi, russe, tedesche e mitteleuropee, con i punti di riferimento principali rintracciabili nella lezione del realismo e soprattutto del decadentismo, arricchita dall’amore per la tragedia greca, la pittura, l’opera lirica e la gloriosa tradizione concertistica tedesca.
Paradigmatico da questo punto di vista Senso, trasposizione del romanzo omonimo di Camillo Boito, esemplare messa in scena della poetica viscontiana, del vivo reagire di corpo e ideologia all’interno di un apparato estetico che fonde e celebra i molti tasselli dell’immenso bagaglio culturale del regista. Nel trasporre l’urto lacerante tra ideale politico libertario e sordida passione erotica vissuto da una contessa veneziana che in piena (terza) guerra d’indipendenza tradisce i propri ideali indipendentisti per amore di un giovane ufficiale austriaco, Visconti ripercorre alcune tappe nodali del proprio percorso culturale. Apre ad esempio il film con l’opera lirica, in quella celeberrima Fenice di Venezia che ospita l’ennesima ripresa del Rigoletto di Verdi, sceglie Anton Bruckner come commento musicale e omaggia perfino i dipinti a tema bellico del macchiaiolo Giovanni Fattori -caratterizzati dall’esclusione del climax della battaglia e dalla volontà di privilegiare i momenti di stanca, la preparazione o l’esito- eliminando dalle scene deputate i momenti eroicistici per esaltare al contrario momenti preparatori dominati da ordine e lentezza, in uno stile che rimanda a King Vidor e che sarà proprio di alcuni capolavori di Stanley Kubrick.
Ad assistere il regista milanese in questo film come aiuto-registi troviamo inoltre Franco Zeffirelli e Francesco Rosi, i due nomi più noti del cosiddetto “viscontismo” (la ripresa, l’evoluzione e l’adeguamento ai tempi dei caratteri del cinema di Visconti) e insieme le due facce opposte di quella tendenza: fautore di un edonismo superficiale e luccicante incapace di scendere in profondità il primo e cantore dell’impegno politico attraverso una potente ricognizione critica dell’Italia post-fascista il secondo, che dal viscontismo propriamente detto si distaccò per dar vita a un’opera di grande livello, dagli spunti propriamente personali.
Nel 1957, tre anni dopo Senso, Visconti gira Le notti bianche, film stupidamente sottovalutato che trasla le vicende dell’omonimo romanzo breve di Fedor Dostoevskij, in una Livorno notturna e invernale e affida a un meraviglioso Marcello Mastroianni il ruolo di “sognatore” distaccato dalla realtà, perso in una bolla atemporale e come risvegliato dall’incontro con una ragazza sola forse in grado di ricondurlo alla vita.
Una straordinaria parentesi poetica, intima e dolorosissima, che prelude a due capolavori magistrali con cui Visconti si fa interprete d’eccezione del presente: ovviamente il già analizzato Rocco e i suoi fratelli e (tre anni dopo) Il gattopardo, mal compreso alla sua uscita, etichettato negli USA come un film decorativo, caratterizzato da un delirio estetizzante, riscoperto successivamente come pungente e memorabile saggio sulla contemporaneità attraverso il filtro del passato.
Il film tratto dal best-seller di Tomasi di Lampedusa infatti racconta la storia dell’approdo dei garibaldini in Sicilia a cui il Principe Don Fabrizio Salina (un indimenticabile Burt Lancaster) assiste passivamente, ormai consapevole della fine dell’aristocrazia e con essa di un vecchio mondo, pronto ad essere fagocitato dal nuovo sistema politico di un Nord già orientato verso la modernità industriale e capitalista. A questo scacco di una classe sociale come di un universo preordinato di leggi e ideali fa eco il declino fisico del protagonista che sente sul proprio corpo la discesa inarrestabile dalla floridità della giovinezza alla decadenza della vecchiaia e della morte. In questo doppio passaggio, insieme collettivo e individuale, i due elementi chiave della poetica viscontiana -corpo e ideologia- trovano una fusione finalmente perfetta e priva di scorie, all’interno di una cronaca amara e nostalgica del decadimento, dello stallo che perennemente domina le istituzioni umane, del tramonto di un mondo in cui “bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’è”, pur immersa in un apparato caratterizzato da un eccezionale senso estetico sempre permeato dai più eterogenei elementi della cultura del cineasta (che scovò un pezzo inedito di Verdi e dopo averlo velocizzato ne fece il tema della famosa e lunghissima scena del ballo che del film costituisce uno dei momenti topici).
Da questo momento (di svolta) il cinema di Visconti subisce una sferzata potente che lo orienta in modo più netto verso un pessimismo radicale. Il suo cinema diventa ancor più drasticamente racconto del male, della depravazione, del crollo epocale che colpisce al tempo stesso la carne e l’ideologia, la bellezza e la giustizia, l’uomo e l’ideale.
Così in Vaghe stelle dell’orsa le ricordanze peccaminose di un rapporto incestuoso tra due fratelli (Claudia Cardinale e Jean Sorel) si legano alle pretese grette e deplorevoli di una classe borghese che vuole arraffare le proprietà del loro padre, morto ad Auschwitz mentre ne Lo straniero (tratto dal romanzo omonimo di Albert Camus) un Mastroianni dal piglio esistenzialista vive in modo distaccato un omicidio e una condanna capitale, facendosi testimone ed esempio di un mondo ormai indifferente alla vita e alla morte.
E’ forse nel poco ricordato La caduta degli dei però che Visconti esprime in modo più limpido quell’ideale di deperimento che colpisce idea e corpo, descrivendo il terribile percorso di caduta nel vortice del male assoluto del protagonista Helmut Berger, prima membro delle SA poi fautore dell’eccidio progettato da Himler e fatto a loro danno da parte delle SS, in un percorso di evoluzione che metaforicamente trasla una Germania arcaica e legata alla terra (l’ideale incarnato dalle SA e dalle loro divise color ocra) in una nazione tragicamente moderna, in cui l’industrializzazione e i suoi metodi rigorosi si prestassero alla distruzione del diverso e alla guerra di sterminio.
Qui Helmut Berger incarna in modo perfetto il rovesciamento dell’ideale viscontiano di idolatria della carne che si tramuta in disfacimento della stessa (e della morale) attraverso scene come quella del travestimento, in cui il corpo di bellezza classica dell’uomo giunge a una metamorfosi di gender, prendendo le sembianze della Lola Lola sternberghiana, o quella atroce dell’incesto nel quale il protagonista si unisce alla madre, in una volontà di reinfetazione nella quale tenta di “rinascere” come “figlio nuovo”, non più della sua genitrice ma del nazismo.
Dopo Morte a Venezia, in cui la distruzione del corpo di un protagonista ossessionato omoeroticamente da un giovane fanciullo avviene per mano della peste, Visconti torna a fare di Helmut Berger il suo feticcio costruendo su di lui il ruolo del monarca musicofilo, fragile e ingenuo Ludwig sfruttato da un Wagner arrivista e disumano e incapace di adattarsi a una realtà gretta e gelida, ai prodromi del capitalismo, in cui i suoi sogni si sciolgono come neve al sole.
E Berger è presente, nelle vesti di un ex-intellettuale degradato ad amante mantenuto, anche nel magnifico e poco considerato Gruppo di famiglia in un interno, un Gattopardo dei tempi nostri, in cui Burt Lancaster interpreta un luminare vedovo che sente marciare dentro di sé i passi della vecchiaia e della morte, insieme attratto e disgustato dai modi di una famiglia di coinquilini, esponente di gioiosa vitalità e volgare consumismo, di una giovinezza che non gli appartiene più e di un mondo che gli è estraneo e beatamente si deterge nel fango. Qui più che mai Burt Lancaster si fa alter-ego del regista milanese, colpito da un ictus celebrale e rimasto bloccato alla parte sinistra del corpo. Da questo territorio liminale tra vita e morte, Visconti gira il suo ultimo film, il necessario incontro diretto con quel decadentismo dannunziano che già aveva permeato la totalità della sua opera precedente come un fantasma sotterraneo (ma neanche troppo). Si tratta de L’innocente, trasposizione dell’omonimo romanzo di Gabriele D’Annunzio, imperniato su un nobile dongiovanni che giura nuova fedeltà alla moglie quando crede di perderla per mano di un giovane intellettuale, prima di scoprire che proprio da quello aspetta un figlio, una nuova vita che diventa un insostenibile ossessione per entrambi i coniugi. E per Visconti stesso che, consapevole di aver esaurito il proprio tempo, muore poco dopo la fine delle riprese.
Su ben altri binari estetici si muove il cinema visionario e multiforme di Federico Fellini, l’italiano più famoso al mondo, l’autore nostrano più unanimamente acclamato all’estero, nato come assistente di Roberto Rossellini (girò la prima scena della sua carriera sul set di Paisà) e successivamente approdato a una concezione di cinema diametralmente opposta a quella del cineasta romano.
Insieme all’opera di Antonioni, infatti, il cinema del regista riminese costituisce il più forte segnale di scarto dalla tradizione neorealista italiana. All’impegno puro e graffiante che caratterizzava quest’ultima, a quell’occhio autoptico (rosselliniano) teso a scandagliare le traccie di un mondo devastato e quell’ineliminabile solidarietà interpersonale sempre operativa al fine di renderlo un posto migliore, Fellini sostituì una visuale simbolica ed evocativa, permeata da una vena di critica sociale vibrante ma nel contempo affettuosa: un cinema debordante di elementi soggettivi e autobiografici, di ossessioni personali, di amori viscerali.
Si pensi ad esempio alla passione di Fellini per l’avanspettacolo già immessa nel primissimo Luci del varietà co-diretto con Alberto Lattuada e assolutamente fondativa dell’esordio in solitaria del cineasta riminese Lo sceicco bianco, in cui una neo-sposa in viaggio di nozze a Roma perde di vista il marito per correr dietro al suo amato divo da fotoromanzo, scovato a Ostia durante le riprese, come dell’indimenticabile La strada, malinconico e commovente on the road circense incentrato sulla piccola e ingenua clownesse Gelsomina, divisa tra la furia aggressiva del marito Zampanò e il candore sognante del Matto, tra la sottomissione cupa e rassegnata di un padre padrone e l’allegria festosa di chi sa prendere la vita con un sorriso. Passione per il piccolo spettacolo che emerge anche nel successivo Le notti di Cabiria, nella celebre scena in cui la protagonista, puttana piena di aspettative d’amore e redenzione, partecipa a uno spettacolo di ipnosi e si lascia andare alle sue più intime confessioni, per poi scovare -all’uscita del teatrino- un uomo che pare la materializzazione dei suoi sogni e si dimostra invece un losco cialtrone in cerca di soldi.
E d’altronde la prima fase della carriera di Fellini è letteralmente imperniata sulle figure di questi piccoli imbroglioni –raccourci microscopique di quell’imbroglio artificiale e sognante che è la macchina cinema- in un catalogo triste ed esilarante, malinconico e grottesco di figure in bilico tra vita e sogno, reale e immaginario: dal sceicco tronfio di Alberto Sordi che adesca una fragile mogliettina con languide e ovattate parole per poi lasciarla sola e disillusa in una città sconosciuta, ai protagonisti de Il bidone, specializzati in truffe a contadini creduloni, passando per i cinque amici nullafacenti del meraviglioso I vitelloni, beatamente sospesi nelle loro futili illusioni di un futuro irrealizzabile in di quello che è uno dei più intensi saggi sulla mancanza di prospettive della piccola provincia italiana, insieme luogo del cuore e bersaglio di denuncia, spazio autobiografico e oggetto di una satira dolce e soffusa. Come quella che, sempre nei Vitelloni, Fellini rivolge ai disvalori “tutti italiani” di mammismo, cialtroneria e codardia attraverso il faccione rotondo e divoratore di Alberto Sordi (simbolo puro più che personaggio) vestito da donna e abbracciato a un pupazzo alla fine di una festa di carnevale che -per contrasto- sa più che mai di dolore, abbandono e negatività; o quella che nel finale dello Sceicco bianco (come nelle Notti di Cabiria) il cineasta riminese rivolge alla Chiesa Cattolica, con i due sposini riunificati dopo i tradimenti (cercati o trovati), circondati da una famiglia calorosa, diretti verso la cupola di San Pietro che chiude il film come un sorta di coperchio capace di sanare e coprire gli impulsi, le ipocrisie, le perversioni e le contraddizioni di un mondo senza più punti di riferimento sicuri.
Eppure dopo l’apocalittica e infera riflessione portata avanti con La dolce vita, in cui la satira amorevole si trasforma in condanna definitiva di una civiltà depravata, Fellini mette in atto uno stacco nettissimo con la -appena illustrata- prima fase della sua carriera. Si assiste a un’evoluzione potente, a un guado travagliato attraverso cui il Maestro trasforma e mette a punto la propria opera.
In primis, Fellini traduce il simbolismo ruspante e primitivo dei film d’esordio in un simbolismo più “nobile”, colto (per alcuni perfino rarefatto) legato ad elementi dedotti dalla psicanalisi e soprattutto dalla rielaborazione fattane da Jung, di cui approfondisce la conoscenza in seguito a una serie di incontri con lo psicanalista tedesco Ernst Bernhard (che gli consiglia peraltro di scrivere il noto libro in cui elencherà i propri sogni).
Fellini parte dal presupposto che l’arte è pura e diretta espressione dell’inconscio e che far arte significa prima di tutto dar voce a questo flusso interiore, far parlare quello che Jung definiva “inconscio collettivo”, una sorta di catalogo eterno delle ossessioni umane capace di comunicare per mezzo di archetipi universali.
Questo primo “passaggio” (da un simbolismo grezzo a uno junghiano) dà vita indirettamente a un secondo movimento estetico: nel momento in cui Fellini decide di introiettare il narrato nel flusso inconscio che scorre dentro di sé, passa inevitabilmente da un racconto delle storie a quello del loro narratore, a sé stesso.
Il passaggio che Fellini mette in atto all’inizio degli anni ’60 è in fin dei conti un tentativo di girare la macchina da presa verso sé stesso, che amplifica a dismisura la componente autobiografica del suo cinema e -nel contempo, quasi paradossalmente- la sua gittata universalizzante. Il cineasta riminese diventa infatti un medium privilegiato di immagini interiori e simboli archetipici, di residui memoriali propri e caratteri ancestrali dell’uomo tout court.
Nel 1963 nasce così 8½, uno dei film più rivoluzionari della storia del cinema, lo sterminato e magmatico compendio del cinema felliniano, una delle vette supreme toccate dalla creazione artistica tout court, che già dal titolo indica la svolta verso la ricognizione del Sé operata dal cineasta che dopo sette film e mezzo (ricordiamo che girò il primo insieme a Lattuada) vira coscientemente in direzione di un cinema che sappia “cucire insieme i brandelli della sua vita, i suoi vaghi ricordi” e insieme che possa “essere utile un po’ a tutti” che aiuti “a seppellire per sempre tutto quello che di morto ci portiamo dentro”. Ne esce un poetico e straordinario gioco di specchi e rifrazioni che racconta e scandaglia vita e anima di un regista in crisi esistenziale (un Marcello Mastroianni qui più che mai alter-ego del cineasta riminese) alle prese con un film da fare ma privo di un’idea che possa davvero attecchire, sospeso tra moglie e amante, presente e passato, sogno e veglia, fantasia e realtà, produttori fedeli e critici starnazzanti, voglia di ricominciare e incapacità di disancorarsi dalla routine. Come disse Dino Buzzati “la masturbazione di un genio”, un elogio appassionato alla confusione dell’esistere, all’imprescindibile necessità di accettare l’incompletezza della vita e accettarsi nella propria dolorosa imperfezione. Perché questo -ammette il protagonista nel liberatorio finale- “è l’unico modo per tentare di trovarci”.
Da questo momento, Fellini passa dunque al setaccio sé stesso e prende ad analizzare i luoghi del mondo e il proprio passato attraverso il filtro dell’inconscio e dei suoi archetipi. La sua opera si riempie allora di animali che assumono le sembianze di mostri mitici, di donne ubertose, grasse e cariche di carne che fondono la Grande Madre con i tratti puri dell’Eros, di motociclisti riletti alla stregua di Centauri, di figure asessuate o androgine, simbolo dell’unità perfetta e utopica dei contrasti di Platone, di clown bianchi e augusti che di quell’idealizzata fusione rappresentano invece l’esplosione e la fine. Il tutto in un flusso perennemente mobile tra presente e passato, vita e morte. Si passa così da Giulietta degli spiriti, ricognizione esistenziale di una donna in crisi che molti etichettarono come transfert femminile di 8½ attraverso la figura dell’amata Giulietta Masina, ad Amarcord (letteralmente in romagnolo “io mi ricordo”) in cui Fellini rievoca la propria adolescenza riminese attraverso un’atmosfera sognante e una galleria di personaggi indimenticabili e impossibili da citare in questa sede; dalle memorie di Giacomo Casanova (Il Casanova di Federico Fellini) su cui il cineasta trasla il proprio senso dell’inevitabile scorrere del tempo e della giovinezza alla ricognizione dell’universo femminile nella Città delle donne, pellicola carica di altissimi momenti visionari che costituisce una variazione sul tema del mai realizzato Viaggio di G. Mastorna, cronaca di un viaggio all’interno di un mondo ultraterreno che -nonostante non oltrepassò mai la fase della sceneggiatura- influenzò profondamente questa seconda fase creativa del Maestro; passando per le rappresentazioni allucinate, sperimentali e apocalittiche di una Roma prima imperiale e poi contemporanea rispettivamente del Fellini Satyricon e di Roma, il simbolismo a tinte storiche di film come E la nave va e Prova d’orchestra e quello bonariamente ingenuo, immediato ma quanto mai paradigmatico de I clowns.
Nell’ultima fase della sua carriera, infine, Fellini sembra tornare alle origini, riportando in auge quello smisurato amore per il mondo dello spettacolo che animava film come La strada, ora rovesciato di segno. Al varietà, il fotoromanzo e il teatro si è sostituita la televisione privata, contro la quale si scagliano pellicole come Intervista, La voce della luna e -più nettamente- il magnifico Ginger & Fred, (pen)ultima collaborazione con i compagni di vita Masina e Mastroianni, nei panni di due vecchie glorie del tip-tap, reclutate per una puntata natalizia di uno squallido programma televisivo. All’avvelenamento dell’etere Fellini oppone una nostalgica e appassionata storia d’amore e d’amicizia, un ultimo lento ballo sgangherato che non si piega alla dittatura del dio-tempo, un breve dialogo sussurrato che è un elogio al silenzio nell’universo del frastuono tecnologico, il definitivo faccia a faccia di due “fantasmi che vengono dal buio e nel buio se ne vanno”.
Ben distante dai toni visionari ed eccessivi dell’opera felliniana è invece il cinema di Michelangelo Antonioni, dominato dagli strutturanti caratteri di lentezza, introspezione, assenza di nodi problematici, carico di pregnanti silenzi, di tempi morti, di voci rotte e parole spezzate, fondato su modalità di sottrazione narrativa che asciugano trame e contenuti al fine di consentire un ripiegamento sempre più forte sulle psicologie fragili e devastate dei propri protagonisti borghesi, specie quelli femminili.
Tuttavia, prima della svolta epocale inaugurata da L’avventura -uno dei primi folgoranti esempi di modernità cinematografica- lo scandaglio intimo e l’interiorizzazione del narrato sono ancora parte di un percorso propriamente narrativo, le ossessioni dei protagonisti -comunque oggetto primario di speculazione e interesse- vengono analizzate all’interno di una diegesi forte o in ogni caso di un racconto di matrice -più o meno- convenzionale. Questi primi lavori sono accomunati dal leitmotiv ricorrente della scomparsa -fisica o simbolica, concreta o metaforica, tema onnipresente in relazione a cui far reagire il sentire dei protagonisti: così nel primo magistrale Cronaca di un amore due amanti si ritrovano dopo anni e ricominciano una relazione duramente dilaniata dal ricordo della morte di un’amica comune a cui entrambi assistettero, rendendosi complici e in un certo modo colpevoli mentre ne Le amiche il cineasta ravvenate passa in rassegna gli umori contraddittori (e gli amori colmi di ipocrisie) di un gruppo di giovani borghesi di Torino, colte dopo il tentato suicidio di una loro amica, delineando in modo già molto netto la fine della possibilità di “capirsi e capire” all’alba dell’era tecnologica e tracciando le fila di quella riflessione sull’incomunicabilità che trova una perfetta manifestazione in quel primo grande capolavoro che è Il grido, sempre fondato sul tema della scomparsa, stavolta quella dell’amore di una donna che costringe il suo compagno -un operaio di paese- a vagabondare in cerca di sé stesso e di un motivo dell’esistere insieme alla sua bambina, senza trovar scampo alla sua ineluttabile solitudine. Un atipico on the road introspettivo e straniante che sostituisce all’azione l’introiezione, al dialogo il silenzio.
Queste le premesse che anticipano la rivoluzione clamorosa compiuta con L’avventura, prima -e probabilmente insuperata- tappa di una tetralogia dell’alienazione co-sceneggiata con Tonino Guerra e con la meravigliosa Monica Vitti protagonista che giunge a esplorare l’impossibilità del dialogo, del contatto e del sentimento in un mondo (borghese) che ha lasciato spazio allo strapotere del denaro, alla virtualità aleatoria e confusa della Borsa, allo spleen dei vizi consumistici, ai profili minacciosi e fumosi delle fabbriche che manipolano e modificano la nostra percezione del mondo. Un imprescindibile quartetto di opere –L’avventura, La notte, L’eclisse, Il deserto rosso– che suona come un’apocalittica e rassegnata dichiarazione di conclusione definitiva: del sentimento, di una percezione univoca della realtà (sempre più copia di una copia), di un mondo ancestrale e legato ai vecchi ritmi della terra, dell’umana consapevolezza di essere artefici e padroni del proprio destino (in un universo tecnologizzato in cui la macchina si fa insieme schiava e divinità).
Segue poi un trittico di film girati all’estero in cui Antonioni mette da parte il suo tentativo di epifanizzare l’incomunicabilità e l’alienazione (comunque presenti) per prodigarsi in una riflessione universalizzante sugli statuti della contemporaneità e soprattutto sul potere della macchina cinematografica. Se con Zabriskie Point il regista elabora un ermetico (e tremendamente stilizzato) affresco sull’utopia sessantottina che si proponeva di abbattere i depravati crismi della società consumista per rivendicare una solidale libertà, ben espressa nella -onirica- scena finale caratterizzata dall’esplosione di una villa costosissima, metafora della civiltà del consumo e forse di quell’infernale macchina fabbrica(e distruggi)-soldi che Antonioni riconosceva nel cinema statunitense; con i due capolavori Blow up e Professione: reporter mette in atto una profonda riflessione sul cinema e l’arte tutta, sui suoi statuti estetici e ontologici, sulla natura del suo sguardo.
Il primo film narra di un fotoreporter londinese che scova in alcune fotografie le tracce di un delitto, si getta a capofitto in un’inchiesta personale ma di punto in bianco scopre che i corrispettivi concreti di quelle prove fotografiche non esistono. Un anti-thriller, dunque, che semina un mistero senza risolverlo, in una suggestiva oscillazione tra realtà e finzione, concreto e immaginario, perfettamente riassunta nel magnifico finale in cui il protagonista assiste a una partita di tennis solo mimata e accetta consapevolmente l’ingresso nel mondo dell’irreale raccogliendo una pallina inesistente. Un film profondamente autoriflessivo che si arrende all’amara constatazione della contemporanea supremazia dell’occhio meccanico, capace meglio di quello umano di scandagliare l’inquietante complessità del reale.
Implicita dichiarazione di poetica smentita 9 anni dopo con Professione: reporter, pirandelliano racconto di (anti)formazione in cui un celebre giornalista scova per caso il cadavere di un uomo a lui molto somigliante e decide di cambiare vita, prendendo le sue sembianze. Questa immersione in una nuova pelle, quest’ennesima avventura di esistere in modo nuovo e diverso lo conduce alla morte: il cadavere si scopre essere infatti quello di un trafficante di armi e i sicari sulle sue tracce infliggono al protagonista che ha preso la sua identità una (seconda e) definitiva punizione. Il piano-sequenza che chiude la pellicola rimane negli annali della settima arte per il suo immenso valore tecnico e simbolico: il protagonista (Jack Nicholson) si sdraia su un letto d’albergo, la macchina da presa lo riprende in totale poi si sgancia lentamente da lui, oltrepassa la finestra e si apre a una panoramica sulla piazza antistante che dura ben sette minuti, infine torna a inquadrare il giornalista ormai morto, ucciso dai sicari. Dopo aver glorificato l’occhio del cinema e la sua capacità di rivelare meglio del nostro apparato visivo la verità nel suo senso profondo in Blow up, Antonioni attesta qui in modo disilluso che il cinema e l’arte non sono più in grado nemmeno di testimoniare l’essenziale della vita. Il loro sguardo si è fatto cieco, incapace di epifanizzare il momento decisivo. Una riflessione per certi versi accostabile a quel crollo epocale dei modi del raccontare che Jean-François Lyotard nella sua Condizione postmoderna definiva “fine delle grandi narrazioni”.
Stefano Oddi
FILMOGRAFIA PARZIALE
– Cronaca di un amore, Michelangelo Antonioni (1950)
– Lo sceicco bianco, Federico Fellini (1952)
– I vitelloni, Federico Fellini (1953)
– I vinti, Michelangelo Antonioni (1953)
– La signora senza camelie, Michelangelo Antonioni (1953)
– Senso, Luchino Visconti (1954)
– La strada, Federico Fellini (1954)
– Il bidone, Federico Fellini (1955)
– Le amiche, Michelangelo Antonioni (1955)
– Le notti bianche, Luchino Visconti (1957)
– Le notti di Cabiria, Federico Fellini (1957)
– Il grido, Michelangelo Antonioni (1957)
– La dolce vita, Federico Fellini (1960)
– L’avventura, Michelangelo Antonioni (1960)
– Rocco e i suoi fratelli, Luchino Visconti (1960)
– La notte, Michelangelo Antonioni (1961)
– L’eclisse, Michelangelo Antonioni (1962)
– Il Gattopardo, Luchino Visconti (1963)
– 8½, Federico Fellini (1963)
– Il deserto rosso, Michelangelo Antonioni (1964)
– Vaghe stelle dell’Orsa, Luchino Visconti (1965)
– Giulietta degli spiriti, Federico Fellini (1965)
– Blow-Up, Michelangelo Antonioni (1966)
– Lo straniero, Luchino Visconti (1967)
– La caduta degli dei, Luchino Visconti (1969)
– Fellini Satyricon, Federico Fellini (1969)
– Block-notes di un regista, Federico Fellini (1969)
– I clowns, Federico Fellini (1970)
– Zabriskie Point, Michelangelo Antonioni (1970)
– Morte a Venezia, Luchino Visconti (1971)
– Ludwig, Luchino Visconti (1972)
– Roma, Federico Fellini (1972)
– Amarcord, Federico Fellini (1973)
– Gruppo di famiglia in un interno, Luchino Visconti (1974)
– Professione: reporter, Michelangelo Antonioni (1975)
– L’innocente, Luchino Visconti (1976)
– Il Casanova di Federico Fellini, Federico Fellini (1976)
– Prova d’orchestra, Federico Fellini (1979)
– La città delle donne, Federico Fellini (1980)
– Il mistero di Oberwald, Michelangelo Antonioni (1980)
– Identificazione di una donna, Michelangelo Antonioni (1982)
– E la nave va, Federico Fellini (1983)
– Ginger e Fred, Federico Fellini (1985)
– Intervista, Federico Fellini (1987)
– La voce della Luna, Federico Fellini (1990)
– Al di là delle nuvole, Michelangelo Antonioni e Wim Wenders (1995)
– Eros, Michelangelo Antonioni, Steven Soderbergh e Wong Kar-wai (2004)
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