Da sempre termometro del disagio del nostro paese, il cinema di Daniele Gaglianone si è schierato in maniera antagonista dalla parte degli umiliati e offesi risultando profetico nell’anticipare le derive della nostra società. Il Festival dei Diritti Umani di Lugano dove il regista è stato uno dei membri della giuria è stato l’occasione per tornare a riflettere sulla sostanza delle cose. E a Daniele Gaglianone abbiamo fatto alcune domande.

Daniele Gaglianone in giuria a Lugano
Per parlare con te volevo partire dal Festival dei Diritti Umani di Lugano che ti vede impegnato come membro della giuria. L’importanza di un festival dedicato a questo tema si capisce da sola, ma uno dei suoi aspetti più evidenti è quello di ricordarci che esistono dei diritti inalienabili, il che di questi tempi è tutt’altro che scontato.
Per risponderti ti riporto quello che hanno anche detto gli organizzatori nella serata d’apertura, ovvero che non dovrebbe esserci bisogno di fare un festival sui diritti umani perché stiamo parlando di qualcosa che dovrebbe appartenere in maniera naturale all’esistenza di ogni persona. Purtroppo succede il contrario: ogni giorno la situazione peggiora ed è per questo che secondo me è importante creare occasioni che ci facciano fermare per riflettere sulla sostanza delle cose.
Ne I nostri anni, che è il tuo primo lungometraggio di finzione, hai raccontato la Resistenza. Mi pare che quel concetto abbia molto a che fare con chi, e sono in molti anche nella nostra società, quei diritti se li vede quotidianamente negati.
Ah, beh, certo. Purtroppo anche qui la parola resistenza non può essere dimenticata perché gli attacchi ai diritti umani sono sempre più frequenti, sempre più forti. Da qui la necessità di operare una resistenza, una lotta, una risposta anche dura, se necessario, perché riaffermare questi principi è fondamentale.
In questo senso la tua filmografia è e un termometro di questa situazione perché se è vero che la mancanza dei diritti umani colpisce gli ultimi della società il passaggio dal racconto della condizione del sub proletariato a quella dei migranti è lo specchio di quanto successo in questi anni.
Ho sempre pensato che ci si dovesse sforzare di raccontare situazioni estreme che sono anche un po’ ambasciatrici di un possibile futuro. Estreme vuol dire anche marginali perché i personaggi si trovano veramente sulla soglia di qualcosa che li può travolgere. In queste situazioni emerge spesso qualcosa che ancora non è emerso con chiarezza oppure che non si ha la voglia di vedere.
Tematiche ricorrenti
Se penso a Nemmeno il destino, a Pietro, ma anche a La mia classe una delle costanti è quello di parlare di chi è stato dimenticato dallo Stato, ma anche la presenza dell’intervento spontaneo di chi invece si ricorda che esiste anche l’altro più svantaggiato.

Se devo darti una definizione dico che il mio è un cinema della solitudine perché racconta persone che sono state abbandonate o che hanno scelto una storia solitaria piuttosto che adeguarsi al pensiero maggioritario. Anche Dove bisogna stare lo è perché, oltre a essere un film sulla solidarietà, racconta la solitudine delle protagoniste consapevoli che questa condizione appartiene anche a loro e non solo a coloro di cui si occupano. Oggi la solitudine scivola sempre più nella disperazione perché la nostra società è diventata una giungla ultra individualista in cui il fascio liberismo ha come prima vittima l’individuo.
Ne La mia classe il maestro, interpretato da Valerio Mastandrea, è un altro esempio della condizione di cui parlavi. Come le donne di Dove Bisogna Stare anche lui si apre agli altri a partire dalla propria solitudine.
Certo! Il personaggio di Valerio è un professore che di fronte allo spettro della malattia inizia a recuperare una sensibilità che la quotidianità del lavoro gli ha fatto un po’ dimenticare. Da quel momento inizia a percepire i suoi alunni in un altro modo e sono d’accordo con te nel dire che si tratta di un personaggio paradigmatico.
Gli spazi nei film di Daniele Gaglianone
Sia nei primi film che negli ultimi la solitudine diventa anche una questione di spazi. La marginalità dei luoghi in cui vivono le persone che racconti assomiglia a una sorta di limbo. Penso alla Torino post industriale di Nemmeno il Destino e di Pietro di cui non si vede mai il centro della città, ma anche a Dove Bisogna Stare in cui i migranti vivono in strutture abbandonate e fatiscenti.
La solitudine e il disagio esistenziale vanno di pari passi con un malessere e una solitudine che è anche urbanistica e sociale. La periferia slabbrata, i posti che non si capisce se siano da smantellare o da recuperare sono i luoghi in cui questa solitudine sociale ed esistenziale trova un eco. Nemmeno il Destino e Pietro sono due casi in cui i protagonisti si assomigliano, due “spostati” che, come hai detto tu, vivono in una sorta di limbo, in una bolla che in qualche modo li protegge.
Pensavo anche a Ruggine e a quella pianura infinita che si apre dietro l’agglomerato di palazzi popolari in cui giocano i bambini e ancora alla metropolitana in cui incontriamo i protagonisti diventati adulti. Anche quelli sono due luoghi che in maniera diversa diventano emblema della solitudine di cui parlavamo.
Sì, assolutamente. Mi fa piacere che tu abbia colto questa cosa, perché è anche la storia di personaggi che all’inizio della loro vita vivono in un posto difficile, in cui però possono muoversi, vivere, sperimentare mentre da adulti sono chiusi in posti claustrofobici, ognuno prigioniero dentro la sua cella fino a quando si ritrovano in questo serpentone rappresentato dalla metropolitana che li porta non si sa bene dove. Anche Ruggine è un film che racconta questa parabola: quella in cui i personaggi hanno la possibilità di poter vivere in un altro modo solo quando sono molto giovani e fino a quando non sperimentano il confronto brutale con il mondo degli adulti che li costringe a crescere in fretta andando incontro alla morte spirituale. Carmine è quello che si fa carico di uccidere il mostro, ma questo omicidio è anche un suicidio perché il ragazzino che abita in lui muore definitivamente.

Ispirazioni
Della brutalità degli adulti Filippo Timi è quasi un’incarnazione. A tal proposito ti volevo chiedere se per il suo personaggio ti sei ispirato a quello di Javier Bardem in Non è un paese per vecchi?
In realtà l’ispirazione mi è venuta dal personaggio di Paolo Bonacelli nel Salò di Pasolini anche per quanto riguarda il modo di vestire. Il dottore interpretato da Timi per me rappresenta l’anima nera del nostro paese, quella con cui noi non abbiamo mai voglia di fare i conti. Purtroppo il nostro è un paese dove la tragedia convive sempre con una farsa da operetta che impedisce ai nostri governanti di prendersi le proprie responsabilità.
Ancora oggi Ruggine è un film bellissimo a cui forse è nociuto il fatto di avere messo a nudo il Re.
Pochissimi hanno capito quel film e questo per me è ancora un po’ una ferita aperta anche se di quelle è pieno il mio cinema. Per fortuna i miei lavori vengono sempre rivalutati perché ogni qualvolta c’è bisogno di trovare una risposta a un problema cercano sempre i miei lavori. Forse il problema dei miei film è stato di avere ragione troppo in anticipo. All’uscita di Pietro qualcuno disse che raccontava l’Italia in maniera esagerata. Una giornalista sentenziò che al pessimismo della mia visione mancava solo la presenza della bomba atomica, mentre il film, invece, coglieva in modo molto preciso la deriva che stiamo attraversando raccontando come il senso più elementare di comunità fosse sparito e che a vincere era stata la legge della giungla, come spiega lo spacciatore a Pietro prima di essere ucciso da quest’ultimo.
Peraltro Pietro incarna un po’ il modello di produzione antagonista tipico del tuo cinema.
Completamente!
L’hai girato in poco più di un settimana disponendo di un budget esiguo. Nonostante questo il film è andato in concorso a Locarno, ha vinto numerosi premi e, come hai detto, rimane tutt’oggi un film profetico.
Per la precisione in 12 giorni.

I diritti umani nei film di Daniele Gaglianone
Tornando a La mia classe, quel film mette in circolo un altro tema che è importante sia in termini di diritti umani sia in termini di poetica cinematografica. Mi riferisco al concetto di inclusione verso il quale la scuola gioca e dovrebbe giocare un ruolo decisivo.
Per me la scuola è fondamentale perché è il luogo dove si costruisce il futuro. Purtroppo il nostro sistema scolastico, che era uno dei migliori del mondo, ha subito in questi decenni degli attacchi che rischiano di mettere una pietra tombale sulla sua eccellenza. Questo perché in Italia e nel mondo c’è una liaison molto chiara tra l’Italia, il budget dell’educazione pubblica e la rinascita di pensieri brutali, di ideologie rozze. Fino a un po’ di tempo fa la scuola formava dei cittadini e degli esseri umani, adesso forma dei performer, dei competitor. Il mio compagno di banco non è solo il mio compagno di banco, ma è quello con cui dovrò competere nel futuro. Così non si va da nessuna parte.
La scuola è il luogo dove tutti siamo stati e dove dovremmo andare. Ne Il tempo rimasto, il mio ultimo documentario, c’è un passaggio in cui alcuni vecchietti dicono che sarebbero andati volentieri a scuola ma non avevano potuto farlo perché non erano ricchi. Quando ho sentito queste parole mi è venuto un brivido perché oggi stiamo andando verso quella direzione, verso una società sempre più classista dove la lotta di classe purtroppo esiste, ma la fanno i ricchi contro tutti gli altri e la stanno anche vincendo. In realtà la scuola è il luogo dell’uguaglianza, della conoscenza e della comunità per eccellenza.
In questo senso ne La mia classe l’aula è anche un’allegoria dello spazio che stiamo costruendo e distruggendo. La mia classe si può anche leggere come l’allegoria della nostra sedicente democrazia, nel senso che dentro quello spazio tutto funziona secondo regole assolutamente progressiste, ma appena ne sei fuori non godi più di nessuna tutela.
Il punto è che l’Occidente continua a celebrarsi e ad auto narrarsi come il luogo ideale, quello a cui tutti aspirano, cosa che non è vera. L’Europa in primis è una barzelletta. Parliamo di democrazia, di libertà che vogliamo esportare in altri paesi, diciamo di difendere i più deboli, poi sia dentro che fuori ce ne freghiamo degli altri e di quei diritti inalienabili che sappiamo difendere solo a parole.
La classe è anche il luogo del riconoscimento della persona. Presentarsi per nome e cognome come succede agli extra comunitari che frequentano la scuola vuol dire oggettivare la propria presenza nella realtà, cosa che fuori dalla classe non avviene quasi mai.
Certo, in quella classe viene riconosciuta la loro identità però al di fuori di quel contesto sono invisibili, sono dei numeri, sono dei fantasmi. Lo si vede nella caparbietà di Issa, il ragazzo ivoriano che nonostante il mancato rinnovo del visto vuole continuare a fare il film, vuole stare in classe perché sa che al di fuori di essa ritornerà a far parte di questa schiera informe e invisibile di fantasmi.
Umanità
A proposito di Diritti Umani a essere umano è anche lo sguardo che rivolgi ai protagonisti dei tuoi film e alla loro alla realtà.
Forse succede perché empatizzo molto con i miei personaggi e cerco di adeguare il mio sguardo a quello che loro hanno sulla vita e sul mondo. Diciamo che il mio modo di guardarli fa emergere il più possibile la loro umanità in un mondo che ha perso la capacità di sentire l’altro.
Il monologo di Valerio Mastandrea oltre a essere molto forte è uno dei passaggi più toccanti del film. Mastandrea è l’attore che ha lavorato più volte con te per cui è a te che chiedo di dirmi qualcosa su di lui a partire dalla capacità di rimanere se stesso e nel contempo di diventare il personaggio che interpreta.
Valerio è una persona e poi un attore che riesce ad attraversare le cose, le situazioni, i personaggi con una disinvoltura volteriana nel senso di quello che hai detto tu: lui riesce a sembrare sempre se stesso e a essere comunque sempre diverso. In questo mi ricorda molto l’effetto che poteva fare Marcello Mastroianni, un attore capace di essere sempre credibile, qualsiasi cosa facesse pur rimanendo uno di famiglia. Mastroianni era una persona che tu riconoscevi, ma questo non gli impediva di essere credibile nella veste dei suoi personaggi. Quando mi hanno proposto La mia classe, la cui idea era quella di ispirarsi a ciò che aveva fatto Vittorio De Seta, la prima persona a cui ho pensato è stato lui. Ricordo che seduta stante gli ho mandato un messaggio e lui mi ha risposto immediatamente dicendo sì, lo facciamo subito. Questo per dire che per me è stato importantissimo sapere che lui fosse il professore del film.
Il monologo è stato girato nell’ultimo giorno di riprese. La sua scrittura è stata davvero particolare perché si rifà a qualcosa che avevo vissuto quindici anni prima e che nell’ultima settimana di lavorazione mi era ritornato in mente in maniera ossessiva. La notte prima di girare non sono riuscito a dormire mentre il giorno successivo durante la pausa pranzo sono andato da Valerio portandogli il monologo che avevo scritto poco prima su un foglietto. Valerio ha detto va bene, facciamolo. Non abbiamo avuto bisogno di spiegare perché dovevamo farlo e questo la dice lunga sull’empatia della nostra collaborazione.