Per il suo esordio, Jasmin Gordon sceglie di raccontare una storia di maternità, il percorso di una donna segnato dalla costante battaglia tra la sovversione identitaria e la legge dello standard sociale.
Jule (Ophélia Kolb) è una quarantenne madre single di tre figli: Claire, Loïc e Sami (Jasmine Kalisz Saurer, Paul Besnier, Arthur Devaux) di 10, 8 e 6 anni. Giocano insieme, cantano insieme, vivono insieme piccole avventure proibite. Già nei primi minuti però appare chiaro che il loro legame è costantemente in bilico e rischia di precipitare nell’abisso del distacco. Jule non è una madre come tante; il suo passato ne condiziona il presente, la sua memoria, per quanto cerchi di nasconderlo, sembra appartenere anche ai suoi figli, piccoli ometti capaci di affrontare i disagi a cui li espone con una prematura lucidità. Piccoli volti dagli occhi grandi pronti a guardare, osservare, e mai a piangere quelle lacrime di bambino con cui vanno bagnati i ricordi dell’infanzia.
Il ritratto è quello di una famiglia che sovverte i canoni convenzionali, un microcosmo che trae forza solo da se stesso, respinto dalla membrana esterna, da quel mondo fuori che non si concede come un’opportunità, ma come una continua prova di resistenza, dove se si perde o non si scende a patti si è fuori.
Jule ha scelto la propria strada: rimanere in piedi, senza inseguire, voltando le spalle a chi la insegue. Il suo cammino, però, non è solitario e il suo bagaglio è pesante, carico della responsabilità di proteggere chi le è accanto, difenderlo dai pericoli, evitare che si graffi e impedire che cada.
Si diventa madri per un dono, una scelta, un’inaspettata presenza, ma si è madri per dedizione, allargando i propri spazi per accogliere altre parti di sé e disegnando progetti dai confini sempre più solidi affinché non diventino macerie che possano colpire innocenti. Questo peso aumenta sempre di più, e non tutte riescono a reggerlo perché indebolite da fragilità pregresse. Ed ecco che tutti gli sforzi di essere all’altezza sembrano vanificarsi, le decisioni si trasformano in dubbi e i sensi di colpa diventano dolori lancinanti che immobilizzano. Il giudizio, proprio ed altrui, è dietro l’angolo, non lascia margine di errore…ed ogni errore ha le sue conseguenze. Jule è in continua lotta con se stessa e gli altri, inconsapevole di chi sia il reale colpevole della sofferenza. Entra in una spirale di azione e negazione, in cui ciò che ritiene giusto diventa il suo stesso sbaglio.
Jasmin Gordon esordisce con saggia fermezza, affrontando con coraggio un dramma collettivo ma individuale, trattandolo con empatia e gentilezza, dandogli voce attraverso lo sguardo mutevole di una più che convincente Ophélia Kolb, finora conosciuta soprattutto per la sua carriera teatrale e televisiva, e dei tre piccoli protagonisti, perfettamente al passo con le rocambolesche dinamiche sceniche ed emotive. Decide di renderci partecipi attraverso la prospettiva principale dei soggetti coinvolti, tanto essenziale quanto esaustiva, limando quegli spunti narrativi che avrebbero ampliato la stesura ma distolto l’attenzione dal punto focale; dettagli comunque presenti attraverso frammenti di immagini dotate di voce.
Jule ama raccontare favole, non quelle narrate prima di dormire, ma quelle che traghettano comunque nel mondo dei sogni, ricreando realtà parallele, ricostruzioni scenografiche in cui i suoi figli sono attori inconsapevoli, ma felici.
In fondo il personaggio di Jule può vestire i panni di chiunque, ogni volta che ci si imbatta in un compito da assolvere, un sogno da realizzare, un ruolo da ricoprire.
Si dice che soltanto chi si dimostra coraggioso sarà davvero libero. La libertà risiede davvero nella fuga dalle catene della realtà se poi non si è liberi di respirare dell’amore altrui, ricreando così una nuova forma di prigione? Quando la corazza di coraggio che si indossa per vincere il nemico non è altro che un velo cucito dalla paura di perdere?
The corageous è proiettato ad Alice nella città, 2024.