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Middle East Now

Middle East Now, tra riflessione e consapevolezza

Si è appena concluso il Middle East Now Festival a Firenze: un confronto sui temi portanti di questa edizione, con il suo direttore Roberto Ruta

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Si è da poco concluso Middle East Now, giunto alla sua 15esima edizione, sotto la direzione artistica di Roberto Ruta e Lisa Chiari.

Il festival vuole puntare l’attenzione sui conflitti attualmente in corso nella zona del Medio Oriente, ma anche interrogarsi sulle origini – spesso così lontane nel tempo – di quelle stesse guerre. Per transitare, nello spazio della riflessione individuale, e approdare così alla volontà, resa attiva dalla consapevolezza, che un futuro migliore – libero da conflitti e oppressioni di ogni tipo – sia davvero realizzabile.

Intervista a Roberto Ruta

Middle East Now si è appena concluso, ma solo dopo aver consegnato un’eredità importante a chi vi ha preso parte: “Il cinema è sempre più casa dei diritti”. Sembra questo un elogio anche al mezzo cinema, come strumento privilegiato in grado di penetrare una realtà, e restituirne dei frammenti di significato. Qual è in questo senso il suo ultimo intento e il messaggio che vuole condividere?

Sicuramente Middle East Now nasce con la volontà, fin dalla prima edizione, di raccontare storie attraverso il cinema, in qualsiasi area che va dal Marocco all’Afghanistan. Nel tentativo di superare stereotipi e pregiudizi di questa parte di mondo, che emergono normalmente da racconti fatti dai media. Chiaramente, nelle storie che presentiamo, l’affermazione dei diritti, le lotte, le interazioni con il mondo politico, sono temi molto caldi, che emergono.

Il programma di ogni edizione è veramente uno strumento di indicazione in questo senso. Tanti dei film sono progetti culturali, lavori artistici, che vogliono rivendicare i diritti di questa parte di mondo, che sono i diritti delle donne, delle popolazioni oppresse, in un contesto in cui ci sono, appunto, fattori politici che limitano l’interazione, l’accesso alle risorse. Per questa edizione, il tema Ecologist of Resistance voleva rivelare proprio questo aspetto. Il passato e presente coloniale, le spinte capitalistiche, che limitano l’accesso alle risorse naturali, limitano e condizionano anche le persone. É questo il contesto in cui si è voluto lanciare un messaggio di resistenza, di solidarietà, rispetto a questi popoli, e quindi, anche con la volontà di promuovere un futuro migliore.

Middle East Now si fa portavoce di un’idea: cinema come atto di resistenza. Se il focus di quest’edizione è stato il conflitto in Palestina, e annessa realtà di guerra in Libano, non sono stati tagliati fuori altri paesi del Medio Oriente. È un Festival strettamente connesso al presente, ma che guarda costantemente al futuro. Che tipo di ideali intende promuovere il Festival nella rappresentazione di questi due spazi temporali solo apparentemente separati?

Sicuramente sono ideali di giustizia, di uguaglianza, di confronto. L’aspirazione attraverso i film è quella di fare emergere le storie dei personaggi, per innescare momenti di riflessione e solidarietà, con la volontà di cambiamento. Anche nel confronto con un regista, che racconta la storia attraverso un film, si può creare consapevolezza, empatia, e si innesca già un processo di cambiamento.

In questo senso i valori importanti sono sicuramente la giustizia, il dialogo, ma anche la ricerca di una vita decente, più giusta, migliore, per persone che vivono in contesti di limitatezza, di oppressione, di sottomissione talvolta. Nella realtà questi aspetti critici si trovano in tante parti del mondo. Ci sono anche da noi, in Italia; sebbene in certi contesti chiaramente siano presenti in forma più accentuata. In molte parti del mondo in questo momento c’è la guerra; sicuramente quindi un altro valore è il pacifismo: la dimensione di convivenza pacifica.

Il ruolo del Festival pare dunque essere quello di un tramite. Attraverso i film presentati punta l’attenzione sui conflitti in atto al momento, nella più o meno marcata indifferenza generale. Quanto Middle East Now vuole anche dirigere l’attenzione e parlare dei più contradditori aspetti della società attuale, nella quale di fatto questi conflitti nascono?

La volontà è quella di presentare lavori artistici che attraverso la condivisione con il pubblico riescano a veicolare dei messaggi. Non c’è volontà di fare dichiarazioni politiche; piuttosto, cercare di innescare il cambiamento, nella nostra stessa società, nelle persone.

Se anche solo cinque persone escono dalla sala con un’idea diversa rispetto a quella che si erano fatti, magari più superficiale rispetto a un argomento o un contesto, già il Festival ha avuto un ruolo positivo di cambiamento. Non aspiriamo di certo a cambiare una situazione internazionale di guerra, sarebbe una pretesa assurda. Con la consapevolezza, l’approfondimento, la conoscenza, però, il cambiamento s’innesca: tutto ciò sta alla base della presa di consapevolezza e anche di una risposta più attiva rispetto a certi temi.

Guerra, conflitti armati e crisi climatica: tre manifestazioni di una stessa realtà, che trovano spazio all’interno di Middle East Now. Come si intrecciano queste realtà e qual è l’obiettivo, nel Festival, della loro rappresentazione congiunta?

La crisi climatica e la guerra, nei fatti, sono due forme di devastazione. Da una parte, distruzione e sfruttamento puramente ambientale, dall’altra, una devastazione umana. La guerra porta anche tante devastazioni ambientali. Basta vedere come è ridotta Gaza, e cosa ha portato la guerra in questi mesi a Gaza, che è un cumulo di macerie. Anche solo per portare via le macerie ci vorranno mesi e mesi, se non anni di lavoro.

In diversi film del Festival questi due aspetti emergono, sono interconnessi, in maniera molto forte. Anche nella mostra evento speciale di questa edizione, Air, river, sea soil. A History of an Exploited Land, curata da Roï Saade, che è proprio un viaggio attraverso il lavoro di cinque artisti in cinque contesti di sfruttamento ambientale, di limitatezza, e di impossibilità di accesso alle risorse, dalla Tunisia all’Egitto, alla Giordania, fino all’Iraq. Tutti contesti con i quali si può, attraverso queste storie, creare un avvicinamento e un’empatia, e anche quindi maggiore consapevolezza. Questo è quello che vogliamo fare, passare il concetto di resistenza, da forme di sfruttamento, di devastazione, che arrivano dall’esterno. Che siano dovute a poteri coloniali, pressioni economiche, sfruttamento, poteri geopolitici, dalla guerra: tutti hanno conseguenze forti, serie e devastanti sui popoli che vivono in quei contesti.

Cinema sì, ma anche altri eventi. C’è arte, musica, teatro e tradizioni culinarie, sempre con riferimenti ai paesi oggetto del Festival, a testimonianza di una ricchezza e di una varietà caratteristiche di Middle East Now. Quanto è importante il concetto di differenza intesa come ricchezza, da veicolare allo spettatore?

È fondamentale ed è il DNA del Festival stesso. Siamo partiti quindici anni fa con il cinema, con una mostra di fotografie, con una serie di dibattiti, e via via abbiamo allargato le linee artistiche, le possibilità di esperienze culturali che si possono fare a Middle East Now. Si tratta davvero di un’immersione culturale e multisensoriale. E alla resa dei conti, si scopre che sono molte di più le affinità che abbiamo noi occidentali rispetto a chi vive in Medio Oriente, e non le diversità. Ci sono molti punti di contatto, perché se ci si guarda sempre con il filtro del pregiudizio o della distanza, allora si è lontani. Se si vuole entrare dentro le storie e la vita delle persone, è differente.

E poi il cibo. Si tratta di un veicolo di confronto e contatto culturale molto importante. Il cibo viaggia, va in altri paesi, diventa l’occasione nel momento in cui ci si appresta a un piatto, di entrare in quella data dimensione culturale. É il modo più diretto di avvicinamento a una cultura: ci sono mani e mani che l’hanno preparato, la tradizione da cui viene, gli ingredienti che provengono da più paesi. É complessità e ricchezza anche questa, negli aspetti e nelle caratteristiche, che ci restituisce dei valori forti.

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