E’ giunta al termine l’undicesima edizione del Film Festival dei Diritti Umani di Lugano una manifestazione che tramite i film vuole mettere in evidenza le problematiche, i conflitti mondiali, le diseguaglianze e le testimonianze che spesso rimangono nascoste. Un programma ricco di incontri e proiezioni che fanno riflettere e accendere numerosi dibattiti. Una grande attenzione per i temi legati alle guerre, ma anche e soprattutto alla dignità umana in ogni aspetto della quotidianità. Anche quest’anno abbiamo avuto l’occasione di intervistare Antonio Prata, il direttore del festival riguardo al programma dei film e ai risultati raggiunti in questa edizione.
Tantissimi giovani aperti al dibattito
Oggi è l’ultimo giorno del festival, il giorno delle premiazioni. Come le sembra che sia andata questa edizione? Avete raggiunto i risultati sperati?
Siamo molto soddisfatti, questa edizione non solo ha confermato situazioni molto positive che avevamo rilevato già negli anni precedenti, soprattutto con i giovani e con i ragazzi. In tutte le proiezioni abbiamo visto un incremento non solo numerico, ma anche di vicinanza e di coinvolgimento non solo emotivo, ma anche nell’esprimere le proprie opinioni, nei dibattiti e nel confrontarsi, che non avevamo mai riscontrato nelle edizioni precedenti. Questo fa sperare che questo lavoro, con gli anni, può portare a determinati risultati. Ci vuole molta pazienza, ma si comincia a vedere qualche frutto, cioè che i ragazzi si avvicinano a queste tematiche, si appassionano. Questa sensibilità comincia a diventare parte della loro realtà.
C’è molta attenzione ai giovani nel programma del festival. All’Oltrefestival, inoltre, c’è un’attività pensata per i più piccoli: la lettura del libro di Luca Azzolini La strada più pericolosa del mondo. Un racconto per bambini che affronta anche il tema del privilegio dell’istruzione, ancora non accessibile a tutti. Secondo lei, a partire da quale età si può cominciare ad avvicinare i più giovani al tema dei Diritti Umani? Sono previste altre attività di coinvolgimento giovanile in futuro?
I film che proponiamo solitamente sono dedicati a un pubblico che parte dai 14-15 anni, ma da due edizioni stiamo cercando il modo di proporre anche uno spazio ai più piccoli. Dall’anno scorso abbiamo introdotto un film anche per più giovani ma questo è la prima volta che proviamo anche con una lettura, facendo comunque vivere ai bambini l’ambiente di una sala cinematografica in cui però abbiamo cercato un ambiente particolare. Non credo ci sia un’età in cui non si può parlare di tematiche importanti come quelle legate ai diritti umani, si tratta chiaramente di adattare la forma all’età. Le storie aiutano a ad accrescere sentimenti di condivisione, di rispetto e sguardo curioso nei confronti dell’altro, o ancora permettono di mettersi nelle condizioni di capire anche la sofferenza e le difficoltà di persone che non per forza sono vicino a noi.
Questa storia affronta il tema del privilegio dell’istruzione, un diritto che purtroppo non tutti possono ancora permettersi.
Il diritto allo studio è inserito nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (articolo 26).
Purtroppo e sempre di più l’accesso allo studio è visto come privilegio.
Collegandoci al tema dei giovani, del dibattito e della conoscenza, vorrei chiederle di un film in programma al Festival, Coconut Head Generation. Questo film racconta la storia di un Club del Cinema nigeriano, dove i giovani si riuniscono per discutere non solo di film, ma anche di tematiche sociali. Quali motivazioni hanno guidato la scelta di includere questo film nel programma?
Il nostro è un festival sui Diritti Umani, ma che comprendere e analizzare queste tematiche parte dal cinema. Il nostro lavoro principale è quello di andare a scovare dei titoli che abbiano fatto un certo percorso di festival e di sale cinematografiche in altri paesi e che possano poi dare a noi la possibilità di discutere e di approfondire degli argomenti. Questo film mi sembrava un bell’esempio di autodeterminazione, un film in cui tutta una generazione può identificarsi, al di là dei luoghi. Essere uno spazio di confronto libero, come quello che cercano questi ragazzi attraverso il cinema, è anche uno degli obiettivi principali del festival quindi la scelta è stata immediata.
Parlando di confronto, venerdì si è tenuta una premiazione importante: Avi Mograbi ha ricevuto il Premio Diritti Umani per l’Autore 2024. Dopo la premiazione, si è intrattenuto con il pubblico per un dialogo e la proiezione del suo film Z32. È stato sicuramente un momento di grande importanza per il confronto con uno dei registi e artisti più politicamente impegnati. Come è stata accolta la sua presenza dal pubblico?
Mograbi è uno degli autori più interessanti della sua generazione. La ricerca formale si unisce alla presa di presa di posizione sulla realtà che filma. Si è messo in discussione in prima persona in ogni film che ha realizzato per raccontare con l’aiuto del cinema le ingiustizie perpetrate dal suo paese, Israele, nei confronti dei Palestinesi. Ci sembrava giusto dedicare in questa edizione largo spazio a questa situazione e la presenza di Avi Mograbi è stata fondamentale per farlo. Gli incontri con lui hanno avuto un forte richiamo e il nostro pubblico ha trovato nei suoi film e in lui un’occasione di confronto importantissima, ha ricordato a tutte e tutti noi quanto sia fondamentale prendere posizione.
Lei ha parlato di un autore che ha dato voce a testimonianze spesso scomode, ma c’è anche un altro film che si concentra su storie altrettanto importanti e talvolta volutamente ignorate: quelle delle carceri. Il film Tehachapi, infatti, racconta le vicende dei detenuti di una delle carceri di massima sicurezza della California. Quanto è importante per voi portare alla luce un tema così delicato? E quanto è significativo rappresentare le condizioni di vita dei detenuti?
Sono tanti i paesi in cui la situazione dei detenuti nelle carceri è di estrema urgenza, Italia e Svizzera compresi, nonostante tutte le differenze. Il detenuto è sempre più considerato nella nostra società come qualcuno di cui non occuparsi più. Sappiamo invece quanto sia fondamentale per una società non dimenticare nessuno, anche quando è più difficile farlo come nel caso di persone che hanno commesso reati. Per noi è importante portare al festival le storie di tutti gli ultimi. JR e il suo film ci permettono di farlo perché è un film che crea un ponte tra un mondo esterno, che muta in continuazione, e quello interno dei detenuti che invece spesso è molto statico ed è un mondo in cui molti di loro non riescono ad avere prospettive e orizzonti del loro futuro.
Un ultimo tema che vorrei affrontare è quello della violenza sulle donne, una questione purtroppo molto attuale. Come avete deciso di affrontare questo argomento all’interno del festival? Pensate che sia giusto trattarlo in modo diretto, come fa il film Il popolo delle donne di Yuri Ancarani, presentato quest’anno?
Il cinema ci obbliga a dei tempi di riflessione diversi. Il film di Yuri Ancarani ci permette, proprio grazie alla sua forma e al suo tempo, di approfondire via via che il film avanza. Le parole della protagonista Marina Valcarenghi, psicologa di enorme esperienza che ha lavorato per molti anni con uomini che hanno commesso violenze verso le donne, sono uno strumento fortissimo e ci interpellano tutti in prima persona.