Senza dubbio il film più folle che la Festa del cinema di Roma ha proposto sinora, The trainer di Tony Kaye arriva a distanza di ben 13 anni dal bellissimo Detachment – il distacco con il quale il regista britannico fece di nuovo colpo, dopo aver segnato un’intera epoca con l’intramontabile American History X e posizionandosi, di fatto, nell’alveo dei cineasti maggiormente rappresentativi di una maniera esatta di fare cinema: personale, sfrontata, coraggiosa. Eppure, non sono questi gli unici motivi per cui le proiezioni di The Trainer previste al Festival sono tutte sold out. La nuova pellicola di Kaye, ancor prima del suo lancio, si vocifera essere la più strampalata, grottesta, surreale e divertente dell’intera rassegna. E, infatti, lo è.
Il cast stellare è capitanato dal talentuoso Vito Schnabel (sceneggiatura del padre Julian insieme a Jeff Soloman) nei panni del protagonista ed è impreziosito dalla presenza di Julia Fox, Steven Van Zandt, Beverly D’Angelo, Bella Thorne, Gina Gershon, Stephen Dorff, Lenny Kravitz, Paris Hilton, Allan Góes, Taylour Paige, Colleen Camp, Brock O’Hurn e John McEnroe.
Menzione d’onore per gli effetti speciali curati da Blackball (Lorenzo Cefis), grazie al contributo dell’ingegnoso motion designer Yan Caspar Hirschbühl. Il film è prodotto da Imperative Entertainment.
La sinossi ufficiale di The Trainer
Un uomo stravagante, spiantato e tutto muscoli ha un sogno quasi maniacale: apparire sul canale di televendite preferito della madre per promuovere un attrezzo evidentemente pericoloso che, a suo dire, potenzierebbe la quantità di Hope Molecules, delle fantomatiche molecole della speranza nel cervello umano. Autoproclamatosi trainer di star hollywoodiane, in una settimana dovrà sfidare la grandiosa menzogna che è la sua vita.
The trainer: l’Heavy Hat è l’altro da Jack
Jack Flex (Vito Schnabel), trainer di fitness buffo e apparentemente in declino è convinto di aver realizzato un oggetto in grado di trasformare il mondo degli allenamenti. Ecco a voi Heavy Hat, un capello che pesa 10-11 kg, ha un ammasso di borchie dorate sul dorso e una montagna di cavi che penzolano ai lati delle orecchie. Il mito di Flex è Troy e, infatti, a guardarlo il casco sembra un elmo annata 2024. Il cappello serve ed è multifunzionale: ispessisce i muscoli del collo, rinforza in generale il corpo e incide positivamente sul benessere mentale di chi lo indossa. Eppure questo oggetto così bizzarro sembra avere un significato altro. Rimanendo in tema “antica Roma”, l’Heavy heat rappresenta uno scudo per non dover guardare in faccia al vuoto cosmico della propria esistenza e di una collettività in cui si è merci tra le merci e il cui unico scopo è l’accumulo di cose senza valore.
Flex si circonda di persone singolari: un socio in affari tragicamente malavitoso e decadente insieme alla sua bella che gli copre le spalle, la madre a sua volta innamorata di un austero istruttore di fitness, l’ingenua Bee dalla voce indimentacabile e l’intero entourage di ricchi potenziali compratori dell’Heavy Hat – Lenny Kravitz in primis – a cui Flex dà la caccia. Questa mandria di detonati, idealmente fatti per combaciare alla perfezione con il mondo del business losangelino, sono lo specchio – per giunta rotto – di quella stessa società che li ha forgiati e che tentano in maniera molesta di compiacere.
The trainer: disintegrare il sogno americano a suon di battute e psichedelia
Tony Kaye porta The Trainer in una dimensione linguisticamente più libera e istintiva rispetto ai suoi lavori precedenti e lascia che immagini e dialoghi collimino vorticosamente, trascinando lo spettatore in un vortice di sensazioni, senza mai perdere di vista il tema centrale del film: una critica sagace al sogno americano, nelle sue direttrici villane dello show business e in generale del consumismo.
La storia di Jack, dunque, e della sua ossessione insostenibile (per sé e per gli altri) per l’immissione di un prodotto sul mercato da lui creato altro non è se non l’epopea di un individuo che si sente fuori luogo e che prova a realizzare, dentro la sua vita, una vita altra che sia in grado di riempire il vuoto di un’esistenza basata interamente sulla finzione. Un racconto sugli effetti incancreniti di una società capitalistica e corrotta, che attraverso il dominio dell’immagine proclama la totale vacuità dei propri valori di riferimento. Uno smacco irriverente al sogno americano, che intrattiene e fa pensare, mostrando quanto ancora abbia da dire il regista britannico e che è sempre possibile innovare le scelte linguistiche.
Sono Diletta e qui puoi trovare altri miei articoli