Meglio il male noto che il bene da venire
Quando la toppa è peggio del buco: nel tentativo di rimediare al suo fallimentare successo, Coppola si dedica ad un nuovo progetto, apparentemente meno ambizioso: noto in Italia con il nome di Un sogno lungo un giorno (One from the Heart), nel 1982 il regista di origini lucane realizza un musical musicato da Tom Waits.
Il film, inizialmente pensato per avere un budget di circa 2 milioni di dollari, finì per costare attorno ai 26 milioni. Un altro Vietnam, insomma. Non fu la Paramount a fornire i fondi necessari, probabilmente scossa dalla recente collaborazione. Fu allora lo stesso Coppola, tramite la sua compagnia American Zoetrope, a finanziare interamente il film.
Il significativo sforamento di budget fu causato principalmente dalle sfide tecniche che lo stesso Coppola si era posto: il regista voleva infatti integrare nella produzione effetti speciali per l’epoca innovativi, mai testati prima. La sua ambizione mise fin da subito in dubbio la fattibilità economica del progetto. Anche se in fase di scrittura Coppola si era immaginato un musical tradizionale, dall’impianto semplice, durante le riprese decise di adottare un approccio sperimentale: ciò richiese un aumento esponenziale della complessità, così come dei tempi.
Fu implementato l’utilizzo di effetti visivi: questi, non essendo mai stati testati prima, fecero riscontrare diverse problematiche, poiché la loro attuazione richiese numerose prove prima che venissero applicati come Coppola immaginava. La peculiarità dello stile visivo necessitava di particolari illuminazioni che risultarono particolarmente dispendiose, oltre che la costruzione di complessi design: i set raggiunsero dimensioni enormi, anche quando non venivano costruiti in studio: buona parte delle riprese si svolsero infatti a Las Vegas, dove il film è ambientato. Le condizioni metereologiche e le difficoltà logistiche contribuirono ulteriormente alla complessità delle riprese.
Quando le riprese furono ultimate, Coppola fece particolarmente fatica nel concludere un accordo di distribuzione, poiché gli studi erano tutti convinti di quanto il progetto fosse fallimentare. Non a torto: al momento della sua uscita, Un sogno lungo un giorno si rivelò un totale fallimento commerciale, per largo distacco la maggior catastrofe finanziaria di quella stagione cinematografica. La pessima ricezione da parte del pubblico fece registrare ingenti perdite di capitale per la compagnia di Coppola, che fu costretta a dichiarare fallimento. Coppola si ritrovò spaventosamente indebitato e dovette rivedere al ribasso tutti i suoi futuri progetti.
Nastassja Kinski e Frederic Forrest in una scena del film
Altro giro, altro enorme buco finanziario
A nemmeno due anni di distanza, Coppola prende parte alla realizzazione di un altro incredibile flop.
È il turno di Cotton Club, un altro musical che vede come protagonista Richard Gere. Il leggendario produttore Robert Evans – Chinatown, Il Padrino – Parte II – acquisì i diritti di un soggetto scritto da Mario Puzo, già autore del romanzo da cui venne tratto Il Padrino. Evans inizialmente pensò addirittura di dirigere lui stesso il film, assumendo Coppola per la stesura della sceneggiatura. Cambiò però poi idea, assegnando la regia a Coppola, che accettò soprattutto perché necessitava di impieghi su commissione per ripagare i debiti contratti a seguito del suo lascito fallimentare.
La collaborazione tra i due fu però particolarmente tumultuosa, perché differivano rispetto alla concezione dell’opera. Se infatti Coppola in virtù della sua autorialità prediligeva un approccio artistico, quasi romantico, Evans avrebbe preferito orientare il film verso la dimensione commerciale, rendendolo più simile ad un gangster movie che ad un musical. Nella diatriba vinse Coppola: il film infatti, pur essendo uscito nel pieno degli anni ’80, che si caratterizzavano per il loro carattere industriale, risulta quasi essere fuori tempo massimo, come fosse una rimanenza della New Hollywood.
Anche in questo caso, l’approccio quasi compulsivo di Coppola fece lievitare i costi: inizialmente previsto con un budget di 25 milioni di dollari, il film finì per costare oltre 58 milioni di dollari a causa dei continui ritardi e delle molte modifiche apportate alla sceneggiatura. Evans fu quindi costretto a cercare ulteriori fondi, coinvolgendo anche investitori privati, tra cui il trafficante Roy Radin, il cui coinvolgimento portò a diverse conseguenze, conseguite nel famoso caso del “Cotton Club Murder”.
Roy Radin fu infatti trovato morto poco dopo l’inizio delle riprese nel 1983. Il suo corpo fu ritrovato trivellato di colpi in una stanza d’albergo. Le indagini rivelarono come la sua morte fosse legata ad alcune dispute riguardo i futuri proventi del film. Evans fu poi scagionato dalle accuse ma questo influenzò molto la percezione che il pubblico andava creandosi di lui e dei suoi film.
Il clima sul set si faceva sempre più teso: in particolare tra Richard Gere e Diane Lane, che non nascosero mai i rispettivi fastidi. Ma anche tra gli attori stessi ed il regista, che rendeva nervosi a causa del suo perfezionismo. Terminate le riprese, Coppola si chiuse in sala di montaggio, causando ulteriori ritardi alla chiusura dei lavori: insoddisfatto, continuava a modificare il cut.
Quando Cotton Club finalmente vide la luce, ormai la sua cattiva fama lo precedeva: anche se tutti ne parlavano, nessuno sembrava volerlo vedere. Il pubblico se ne disinteressò presto, portando il film ad incassare solamente ventisei milioni di dollari
Il famoso Cotton Club, realmente esistito negli anni ’30, New York
(Non) c’è due senza tre
Riguardo ad un terzo capitolo de Il Padrino, la concordia sulla mancanza di necessità è sempre stata unanime. Lo stesso Coppola inizialmente non aveva alcuna intenzione di realizzarlo, ritenendo che la saga fosse conclusa, se non che all’alba degli anni ’90 era ancora sommerso dai debiti. Fu infatti costretto a dichiarare bancarotta per l’ennesima volta. La realizzazione di un terzo capitolo era stata immaginata dalla Paramount fin dagli anni ’70, avendo cercato di coinvolgere diversi autori nella scrittura di un episodio finale della saga, tra cui lo stesso Puzo, dato il rifiuto categorico di Coppola.
Dopo il fallimento di Cotton Club però, a fronte di un’offerta di sei milioni di dollari e una percentuale sulle vendite, Coppola si vide, per così dire, costretto ad accettare. Puzo venne nuovamente coinvolto ed assieme al regista scrissero un epilogo, ispirandosi al Re Lear di Shakespeare. Se nel caso di Apocalypse Now i travagli produttivi sono noti quasi tanto il film stesso, nel caso de Il Padrino – Parte III questi sono se possibile addirittura più celebri del film stesso.
Già solo la sceneggiatura, come visto, richiese una lavorazione decennale dovuta alle continue riscritture. Anche la scelta del titolo fu travagliata, titolo che nelle intenzioni di Coppola e Puzo sarebbe dovuto essere La morte di Michael Corleone, ma che la Paramount rifiutò categoricamente.
Ciò che polarizzò maggiormente le critiche – oltre ad una sostanziale inconsistenza dell’impianto drammaturgico specie se comparato ai capitoli precedenti – fu la scelta di affidare il ruolo di Mary Corleone a Sofia Coppola, figlia del regista. Il ruolo era stato inizialmente assegnato a Winona Ryder, che iniziò anche le riprese. L’attrice dovette però presto abbandonare il set a causa del suo impegno su un altro progetto ed un conseguente esaurimento nervoso. Coppola venne accusato di nepotismo per la sua scelta, specie in seguito a quella che venne considerata, quella della figlia, quasi unanimemente un’interpretazione poco ispirata.
Sofia Coppola in una scena del film
La conferma del casting in generale fu molto soggetta a difficoltà: Al Pacino inizialmente pareva non avrebbe confermato la sua partecipazione in seguito ad una richiesta d’ingaggio che superava le possibilità del budget. Infine fu trovato un accordo per ben otto milioni di dollari. Lo stesso avvenne per Robert Duvall, che nel capitolo precedente ricopriva il ruolo di avvocato della famiglia Corleone, che, proprio in virtù di quanto ottenuto da Al Pacino, pretese anch’egli un salario simile, attorno ai sei milioni di dollari. In questo caso però l’accordo non fu raggiunto e Coppola fu costretto a riscrivere la sceneggiatura in modo da non coinvolgere il suo personaggio.
Infine, dati i molti insuccessi economici registrati da Coppola negli ultimi anni, la Paramount, per tutelarsi da un altro possibile disastro finanziario, decise di stanziare un budget considerato inadatto all’ambizione del progetto, fissando molti limiti per il regista. Le pressioni esercitate, in aggiunta alla volontà dello stesso Coppola – se non necessità – di abbandonare parzialmente le sue mire autoriali proprio per inseguire il successo commerciale, portò ad un risultato ritenuto da molti critici quale compromesso, influenzato dalle scelte artistiche mediate dal contesto.
Inoltre, ulteriori pressioni vennero esercitate affinché il film fosse pronto entro il Natale del 1990. Questo, considerando anche i rinomati indugi del regista in fase di montaggio, portò a delle scelte giudicate precipitose. A questo Coppola decise di rimediare l’anno seguente realizzando una director’s cut, rilasciata per il mercato home video, che la critica sembrò apprezzare maggiormente.
Il relativo successo de Il Padrino – Parte III, che incassò centotrentasei milioni di dollari a fronte di un budget di cinquantaquattro milioni – permise al regista di respirare. Nel 1992 realizzò infatti Dracula di Bram Stoker, che risultò invece essere un successo pieno, conquistando sia pubblico che critica. Ma non siamo qui per parlare dei suoi successi.
Una chiusa perfetta
Come poteva concludersi l’odissea filmica di Coppola se non con un’altra enorme splendida rovina? Il suo apporto al mondo del cinema è stato, ancora prima che artistico, stoico. Come un moderno Fitzcarraldo, si è immolato per la sua visione, la sua utopia. Del cinema ne ha fatto una missione, rovinosa quanto grandiosa, trovando forse in esso un senso ulteriore al cinema stesso, la realizzazione del senso. Ecco che allora Megalopolis assume un nuovo significato: non può essere considerato un film a sé stante, quanto l’ideale conclusione di un percorso, un percorso non tanto di vita quanto vitale.
Un percorso perfettamente coerente, distinto dalle difficoltà produttive:
Megalopolis ha più di quarant’anni: l’idea venne infatti al regista nei primi anni ’80, dopo aver già realizzato alcuni film di dimensioni colossali. Coppola lo immaginava come un progetto utopico sulla realizzazione di una città ideale: nonostante le continue rivisitazioni lungo i decenni, è rimasto fedele alla sua idea originale. Il fallimento dei suoi altri lavori però lo costrinse a rimandare continuamente lo sviluppo. Quando poi finalmente la lavorazione sembrava sul punto di essere avviata, avvenne l’11 Settembre. I temi che intendeva sviluppare, proprio nella città di New York, quali la riqualificazione urbana e l’abbattimento di edifici, divennero inevitabilmente troppo sensibili. Coppola fu quindi nuovamente costretto a rimandare l’appuntamento con la gloria.
Inoltre, gli ingenti costi che una simile opera monumentale avrebbero richiesto, vennero dichiarati eccessivi da qualsiasi studio che, considerando lo storico del regista, non voleva assumersi rischi. Nessuno sembrava quindi disposto a finanziare il film. Ecco che allora il regista si vede costretto a finanziare interamente il progetto attingendo alle proprie risorse, ipotecando tutte le sue proprietà. Il budget del film si stima essere stato attorno ai 140 milioni di dollari.
Quando finalmente la produzione si avvia, ecco che irrompe il Covid: Megalopolis sembra un affronto alla Provvidenza, che cerca di ostacolarne la realizzazione per punirlo della sua superbia.
Aubrey Plaza in Megalopolis
Finalmente le riprese iniziano, ma Coppola non ha perso le sue manie di controllo: licenzia buona parte della troupe, perché insoddisfatto del loro apporto. Questo causa ritardi e malumori, rendendo la lavorazione particolarmente complessa. I licenziamenti hanno riguardato in modo particolare la squadra degli effetti visivi, perché incapace di allinearsi alla peculiare visualizzazione di un nuovo mondo immaginata dal regista. Coppola ha voluto infatti utilizzare tecnologie sperimentali adottando uno stile visivo unico; stile che ha richiesto una lavorazione particolareggiata, lenta e macchinosa. Infine, i continui rimaneggiamenti della sceneggiatura, la mancanza di linearità del racconto e l’ambizione del progetto ne hanno inficiato il risultato, specie riguardo alla coerenza interna del racconto, che appare sfilacciato, spesso sconnesso.
Come un Ulisse perenne
Megalopolis è l’Itaca di Coppola, ma dalla logica capovolta: tornare a casa per lui significa allontanarcisi, ancora una volta. Tutto nel cinema di Coppola richiama il mondo mitico: come Icaro, nella sua carriera, ha sempre sfidato i limiti delle sue possibilità, per poi schiantarsi rovinosamente. Ha peccato di hybris, credendo di poter competere sul piano della divinità.
Così come questa è la sua ultima fatica, una fatica di Ercole: infatti Megalopolis rappresenta la sublimazione del mito, la sua consacrazione, come la sua deriva.
Un narcisista visionario? Possibile. Ma la storia del cinema ed in particolare gli anni ’70 – aperti e chiusi da Coppola nel ’71 con Il Padrino e nel ’79 con Apocalypse Now – avrebbero oggi lo stesso fascino senza il suo contributo? Probabilmente no.
Editing Sandra Orlando.
;Megalopolis il cinema visionario del demiurgo Francis Ford Coppola