Il burattino e la balena è un’opera ipnotica, dalla fattura artistica sorprendente. Partendo da un mito favolistico che è dentro ognuno di noi, il regista Roberto Catani costruisce, in soli otto minuti, una complessa e a tratti enigmatica versione di Pinocchio. Il burattino e la balena è un film che non ha paura della complessità, della stratificazione delle immagini, di un montaggio delle attrazioni che porta a costruire potentissime metafore critiche sul mondo d’oggi, sull’omologazione industriale e spirituale, sugli eterni fascismi di ritorno, sulla paura di crescere, se diventare adulti significa accettare l’universo orrendo della modernità di cui parlava Pier Paolo Pasolini.
Per saperne di più su questo breve mondo affascinante che è grande cinema, abbiamo intervistato il suo regista, Roberto Catani.
Il burattino e la balena ha avuto la sua prima mondiale in concorso all’81a Mostra del Cinema di Venezia.
È stata una grande soddisfazione, anche considerando l’altissimo livello delle opere in concorso. Esserci è stato già un grosso premio. Erano solo due i cortometraggi italiani selezionati. E con un film di animazione non è così comune. Nel Burattino e la balena ho investito molto lavoro, molta fatica. Ci tenevo ad arrivare a un determinato risultato, che in parte rivoluzionasse la storia di Carlo Collodi e fosse anche un messaggio universale, contemporaneo.
Che tecnica grafica hai utilizzato per raccontare questa tua versione di Pinocchio?
È una tecnica mista, che parte da una base di gessi rielaborati con l’Oilbar trasparente, poi spatolati. Gli Oilbar sono delle pastelle a olio, praticamente una pasta grassa morbidissima che lega tutto il gesso che utilizzo per colorare. Poi intervengo con una spatola per portar via la parte più grassa e ci ritorno sopra, in parte con i gessi, in parte con i pastelli, in parte con la punta secca, per creare dei piccoli chiaroscuri.
Un lavoro molto artigianale.
È estremamente artigianale. Io lavoro su carta con i polpastrelli, è fondamentale per spalmare il colore.
Che cosa ti affascinava di più della storia di Carlo Collodi?
La storia è affascinante, come credo pensino tutte le persone che hanno avuto a che fare con questo testo. Però, più che una fascinazione, io percepisco un’inquietudine dietro questa fiaba. Non è una storia allegra, è una fiaba intrisa di morte e momenti estremamente cupi. Quello che a me più turbava, era questa necessità, per un personaggio come Pinocchio, disobbediente, ironico, libero, di conformarsi, omologarsi agli altri per diventare egli stesso un bambino. Io questa cosa non l’ho mai accettata. Mi sembrava che, in questo contesto storico, soprattutto nel nostro Paese, raccontare un personaggio che, invece, non vuole adeguarsi, e non si riconosce nel mondo che lo circonda, fosse importante. Perché la visione dell’umanità che oggi viene a galla non ci rimanda una bella immagine. A me piaceva molto l’ingenuità, la purezza, la bontà, di questo burattino così libero.
Pur se c’era un fondo di cattiveria tipicamente infantile.
Sì, però è una cattiveria infantile, come dici tu, non premeditata, libera, frutto di spontaneità.
Animare vuol dire dare un’anima a chi non ce l’ha. Cosa hai voluto donare al tuo Pinocchio?
Avrei voluto donare ancora più anima, quindi ancora più movimento. Questo personaggio si muove molto, balla, ha una gestualità forte, cosa che non ho mai fatto nei precedenti miei corti. Con quella gestualità, con quei movimenti, volevo raccontare una vitalità, una libertà totale.
Il tuo Pinocchio rifiuta l’orribile mondo degli adulti, fatto di violenza e omologazione. Perché hai scelto proprio il punto di vista del celebre burattino e non un soggetto originale?
Io volevo lavorare su questo concetto: un personaggio diverso dagli altri, un bambino che si distinguesse, andasse contro il modello dominante. Quando ho detto questa cosa a una mia cara amica, Regina Pessoa, un’animatrice portoghese, mi ha detto: «Ah, ho capito, stai lavorando su Pinocchio». È stata lei a illuminarmi. Quando lo ha detto ho capito: ah, certo, sì, sto lavorando su Pinocchio! Ho capito che quello doveva essere il mio percorso. Quando penso alla disobbedienza, io penso a Pinocchio. Questa sua voglia di non essere come gli altri, almeno per tutta la prima parte del racconto, si calava a pennello per quello che volevo fare.
Cosa rappresenta la balena del titolo?
È la balena mitologica che parte dal racconto biblico di Giona fino a Moby Dick, ma è anche un rimando politico all’Italia.
Pensavi al conformismo politico degli anni della Balena bianca democristiana?
Pensavo a quel conformismo, ma anche a un male che inghiotte e ingurgita tutto, un male da cui Pinocchio scappa.
Pinocchio è, classicamente, un racconto di formazione. Nella tua opera sembra un racconto di opposizione. La rinuncia è una scelta possibile oggi?
La rinuncia al conformismo, all’omologazione, all’arroganza, alla prepotenza, alla supponenza, è una forma di lotta. Tutto nasce da un mio desiderio, un’esigenza, quasi un’urgenza, di voler raccontare questo gesto di disobbedienza. Forse perché sono sempre stato un obbediente nella vita, volevo andare contro questa mia indole. Mi piacerebbe essere Pinocchio, non lo sono mai stato.
Quali sono gli artisti che più ti hanno influenzato nella creazione di Il burattino e la balena?
L’influenza credo sia stata più che altro letteraria. Per la prima scena, ad esempio, mi sono ispirato a Mary Shelley e il suo Frankenstein: un personaggio che nasce buono e ingenuo e che diventa un mostro a causa degli uomini. A livello formale, ci sono sicuramente riferimenti a Institute Benjamenta dei fratelli Stephen e Timothy Quay, un film tratto dal romanzo Jakob von Gunten di Robert Walser. Una storia che racconta le vicende di un giovane che frequenta una scuola per diventare cameriere. Il protagonista compie, quotidianamente, insieme ad altri ragazzi, una gestualità sempre uguale, per imparare a essere servile, obbediente, riverente. Quella è stata una grossa ispirazione, come tutta l’opera dei Quay Brothers. Un bellissimo film, anche se non propriamente d’animazione, ma un live action, realizzato in modo superlativo.
Non temevi che questo tipo di narrazione, un montaggio delle attrazioni così complesso, potesse disorientare lo spettatore?
Il mio timore era che questo tipo di montaggio non reggesse la storia, perché io faccio sempre film in piano sequenza, con forme che si trasformano o scaturiscono da altre forme, un continuo movimento visivo. Il burattino e la balena, invece, ha una narrazione con un montaggio relativamente tradizionale. Quindi mi sono cimentato per la prima volta con questo tipo di situazione. Mi piaceva che quella vitalità di Pinocchio fosse raccontata attraverso un montaggio così serrato.
Visionariamente, in una delle scene iniziali, il padre di Pinocchio diventa la scala che porta verso il mondo. E poi, però, quel mondo è un universo orrendo.
Il mondo che lasciamo ai nostri ragazzi è fatto di una schiavitù volontaria, si chiama così, un modello economico opprimente che, per fortuna, molti giovani non stanno più accettando. Allora, noi adulti, più che porci come modelli, dovremmo farci delle domande su quello che siamo. Pinocchio è la figura che questa domanda la fa: «Cosa ci state lasciando? Io non vorrei essere mai come voi». Io parlo attraverso questi disegni. Tutto quello che sento, tutto quello su cui rifletto sta lì dentro, attraverso quelle immagini. Ho cercato di metterci tanto, spero che arrivi.
Una delle scene più perturbanti è quella in cui Pinocchio diventa la palla con cui giocano i bambini.
Quella sequenza nasce al termine di una panoramica verticale in cui i bambini eseguono gesti sempre uguali e vengono ammaestrati a un certo tipo di comportamento. Alla fine di quella panoramica, ciascun bambino si trasforma in un sacco nero appuntito: quei cappucci neri sono il gatto e la volpe che impiccano Pinocchio. Ciascun bambino impicca Pinocchio. Ciascun bambino impicca la propria bontà, ingenuità, la propria libertà. Al termine di quella scena, quello che rimane è l’ombra di una testa enorme di Pinocchio che cade sul fondo e, quella testa, viene presa a calci cinicamente e barbaramente dai bambini che hanno definitivamente abbandonato ciò che di più puro e bello c’era in loro. Ciascun bambino uccide il Pinocchio che è stato.
Molto affascinante è anche il montaggio sonoro.
Per quello ha fatto un lavoro eccezionale Enrico Ascoli, che ha curato il suono. Ci siamo confrontati molto su questo aspetto ed è stato davvero bravo a interpretare la mia visione. Anche nel montaggio sonoro c’è un grande effetto di straniamento. Lo abbiamo cercato, amplificato. È un Pinocchio che crea, in chi lo guarda, il disagio che sente lui. Posso dire che, nel Burattino e la balena, ci sono due fasi: una prima in cui lui nasce, prende consapevolezza di sé e balla; una sensazione di gioia, felicità e libertà che va in contrasto con tutta l’altra parte, quella all’interno della balena, all’interno del male.
Altri progetti in vista?
Nessuno, per il momento. È stata veramente un’immane fatica terminare Il burattino e la balena. 1800 disegni, tutti a mano, anche se ho avuto una collaboratrice per la grafica e una per la fotografia. A livello esecutivo ci ho impiegato due anni e mezzo per realizzarlo, senza considerare la parte progettuale. È stato un lavoro pazzesco, anche perché a questo si affiancava quello quotidiano d’insegnante di cinema d’animazione in un liceo artistico. E sapete bene quante energie richiedano i ragazzi. È impossibile contare economicamente solo sul lavoro di regista d’animazione. I pochi che ci vivono faticano moltissimo. Il lavoro è scarso e i budget ridottissimi.
Roberto Catani