In occasione della presentazione del toccante documentario Il parco della speranza alla nuova edizione del Film Festival Diritti Umani Lugano, il regista Bruno Bergomi ha rilasciato un’intervista alla redazione di Taxidrivers. Bergomi ha ripercorso con noi il suo passato, ricordando il contatto con la clinica psichiatrica quando era solo un bambino. Ma ha anche lanciato uno sguardo sul futuro, sui problemi e sulle soluzioni della psichiatria attuale.
Le preziose testimonianze del film
Quante testimonianze sono state raccolte per la realizzazione del film? C’è n’è stata qualcuna che l’ha colpita in particolare?
Ho raccolto una ventina di testimonianze, diverse persone le conoscevo già, come Willy Lubrini, infermiere in pensione; ho discusso abbastanza a lungo con lui e con altri suoi colleghi. Diciamo che il compito non è stato così difficile da quel punto di vista. Ho consultato una ricerca, quella del Professor Marco Nardone sugli internamenti dei minori dal 45 all’81, e lì c’era anche la storia della signora Daniella Schmidt, che è stata fondamentale e che abbiamo potuto filmare. Mi sembra che sia stata una parte importante del documentario. Lei ha subito un internamento dal 59 al 64 semplicemente perché era una ribelle, non perché fosse malata di mente. Come questa storia all’ospedale neuropsichiatrico, al manicomio, ce ne sono tante.
Lo sguardo del bambino
Com’è stato per lei, da bambino, entrare in contatto con i pazienti della clinica? Che sensazioni ha provato?
Da bambino è stata una cosa un po’ naturale entrare in contatto con l’ospedale neuropsichiatrico. La mia famiglia era una famiglia contadina e noi confinavamo con l’alta rete metallica dell’ospedale neuropsichiatrico, quindi vedevo tanti uomini lavorare e a volte mi mandavano a prendere le sigarette o una birra di nascosto al negozio del paese. In seguito ho servito messa e servire messa all’ospedale neuropsichiatrico era effettivamente un’avventura interessante per tre o quattro ragazzi del quartiere. Prima di tutto perché negli anni 50, inizio 60 il manicomio era un luogo completamente chiuso, si entrava solo da una porticina, il cancello grande era solo per alcune auto dei medici o dei fornitori. Noi la domenica mattina arrivavamo lì, c’era il portinaio che ci lasciava entrare senza problemi e per noi era una cosa abbastanza unica poter scorrazzare in questo parco, un luogo un po’ proibito, non sapevamo fosse un luogo di sofferenza. Andavamo alla chiesa e poi ci fermavamo ad ascoltare più che altro dei gruppetti di pazienti che chiaramente non potevano uscire a quell’epoca. C’erano dei crocchi che noi guardavamo un po’ meravigliati, insomma non ho mai avuto la sensazione di paura, c’era la curiosità.
I pregiudizi del passato
E il resto del paese invece come percepiva la clinica e i suoi pazienti? Ci sono stati casi di forte pregiudizio?
È chiaro che quando sei bambino non pensi che l’ospedale neuropsichiatrico sia un luogo di sofferenza, non pensi tanto ai pregiudizi anche perché fuori da bambini non ne avevamo, e andavamo appunto a servir messa. Addirittura con il prete io andavo a benedire i padiglioni. Per me è stata una normalità, poi le suore ci davano sempre il tè coi biscotti o con la torta, ci davano 50 centesimi per il film la domenica pomeriggio all’oratorio. Mendrisio, il borgo che ospita da sempre l’ospedale neuropsichiatrico e dove sono cresciuto è sempre stato molto tollerante verso i malati che poi dagli anni 70 hanno potuto uscire.
Mi ricordo una cosa interessante: io a 14 anni ho deciso di smettere con il ginnasio e di andare alla scuola agraria di Mezzana, per la prima volta mi sono trovato con dei ragazzi che venivano da tutto il Ticino, era forse la fine un po’ della civiltà contadina. Questi ragazzi venivano dalle valli e quando il primo giorno di scuola, abbiamo dovuto dire un po’ da dove venivamo, io ho detto che venivo da Mendrisio, ho sentito dei risolini ma non avevo capito il perché. I ragazzi ridevano e poi mi sono guardato attorno e qualcuno aveva messo l’indice sulla tempia come per dire, insomma, venivo da un paese di matti. Insomma una cosa che mi aveva molto meravigliato. Quando poi con gli stessi ragazzi della scuola agraria siamo venuti a lavorare sui campi nell’ospedale neuropsichiatrico, molti di loro erano preoccupati di essere in quel luogo. Io non avevo nessun problema con le persone che incontravo nel parco. Loro avevano anche un po’ paura, forse timore.
Il ruolo salvifico di arte e cultura
Arte e cultura hanno un ruolo salvifico nell’ambito psichiatrico. Pensa che a livello sociale e politico ci si dimentichi troppo facilmente di questa cosa?
Nella socioterapia di oggi, l’abbiamo anche mostrato nel documentario, è molto sviluppata questa relazione tra arte e cultura, ci sono tantissime cose che avvengono. Nell’ambito dell’organizzazione socio psichiatrica, non solo Mendrisio, perché la socio terapia è diffusa sul territorio del cantone. Noi abbiamo mostrato delle cose, soprattutto attraverso la festa d’autunno che c’è sempre, dove si vedono tantissimi lavori che fanno gli operatori, i pazienti, gli ex pazienti e altri utenti attorno alla socio terapia, in particolare al club 74. È chiaro, tutto ciò meriterebbe un altro documentario pensando la storia tra arte e cultura e follia, dove tanti artisti hanno dovuto convivere.
Problemi e soluzioni per la psichiatria
Come vede attualmente lo stato della psichiatria? Quali cambiamenti sono per lei auspicabili per il futuro?
Io non sono uno specialista della psichiatria, io ho fatto un lavoro su questo territorio, sull’evoluzione di questo territorio, di Casvegno, a Mendrisio, già ospedale neuropsichiatrico cantonale, il manicomio come si diceva una volta, e oggi fa parte dell’Organizzazione socio psichiatrica Cantonale sul territorio di tutto il Cantone. Però lì c’è la Clinica psichiatrica cantonale che è il luogo principale dove si curano le malattie psichiche.
Io penso che il problema di oggi, l’abbiamo visto dopo il COVID e forse anche legato a tante situazioni, il problema è quello dei giovani; sempre più giovani hanno o sono affetti da malattie psichiche. Ci sono molti giovani che prendono delle sostanze, molti che hanno degli atteggiamenti suicidi, un sacco di problematiche gravi che la psichiatria deve affrontare. Penso sia importantissimo che qualcuno risponda a queste domande, a queste esigenze di questa parte della popolazione. Mi sembra che nel nostro paese venga fatto abbastanza bene, insomma l’Organizzazione socio psichiatrica affronta queste cose e c’è in previsione, si sta costruendo, una nuova struttura a Bellinzona dedicata ai giovani quindi mi sembra che c’è un’attenzione anche da parte degli operatori.