Dopo la première alla Settimana della Critica di Venezia, la presentazione a Toronto al TIFF, il film Anywhere Anytimeè passato in Corea del Sud al Busan International Film Festival nella sezione competitiva Flash Forward. Abbiamo incontrato il regista Milad Tangshir per farci raccontare la Torino che ha voluto narrare, il lavoro con attori non professionisti e l’esperienza del suo primo film di finzione.
Com’è nata l’idea di Anywhere Anytime e come sei arrivato a collaborare con Giaime Alonso e Daniele Gaglianone?
Era il 2018 e mi ero interessato al fenomeno dei riders che a Torino e penso in Italia era ancora alle origini. Soprattutto perché chi fa questo mestiere sono a volte italiani all’ultima spiaggia e tanti stranieri appena arrivati in Italia, almeno all’inizio. È un lavoro per cui devi solo pedalare e mostrare il telefono; quindi, tanti non sanno neanche l’italiano; tanti lavorano con l’identità degli altri. Ecco perché mi affascinava.
Perciò per un’ estate intera, a Torino, sono andato in giro con un rider senegalese, ho fatto con lui tutte le consegne, le attese ai ristoranti, le strade, eccetera. Mi sono immediatamente reso conto che la bicicletta veramente può cambiare la vita a qualcuno. Chiaramente mi è tornato in mente il capolavoro di De Sica. Però nessuno, secondo me, almeno che non sia pazzo, può permettersi di fare un remake: io non volevo fare un remake, non volevo fare un’operazione di cinefilia. A me interessava usare quel pezzo di cultura italiana come punto di partenza, quasi come un gioco per attirare l’attenzione degli italiani. Per dire che 75 anni dopo, ancora una bicicletta può cambiare la vita; però vediamo chi sono questi nuovi ladri di biciclette, chi sono queste nuove fasce di persone vulnerabili per cui una bicicletta può cambiare la vita. Questo è stato il punto di partenza.
Questo è il mio primo film di finzione, prima avevo fatto dei documentari, corti, però mi sentivo che per fare questo switch da documentario a finzione non potevo scrivere da solo. Banalmente, un soggetto, una sceneggiatura, un testo deve convincere in primis i produttori; quindi, deve essere una prosa di una certa qualità che io, non essendo italiano, non potevo produrre. Quindi a Torino conoscevo Giaime Alonge, che è stato mio professore all’Università di Torino e che insegna sceneggiatura, e Daniele Gaglianone, che avevano scritto insieme tre film di finzione di Gaglianone stesso; quindi era un team che lavorava insieme. Gaglianone lo stimo come regista, per l’approccio emotivo, drammatico, che condivido tanto. Per questo ho proposto a loro due: sono stati i primi a darmi ascolto e ci hanno creduto, insomma.
‘Anywhere Anytime’ di Milad Tanghsir – Foto di backstage di Stefano Meloni
Prima di arrivare a questa opera prima di finzione hai percorso un viaggio con tappe diverse, partito dalla musica e approdato tra l’altro anche ad un prodotto di realtà virtuale. Raccontaci questo viaggio tra generi e media diversi che ti ha condotto a Anywhere Anytime.
Negli anni 2000 in Iran con altri amici, avevo un gruppo progressive metal: abbiamo inciso tre dischi in Iran in quegli anni, che sono andati bene. Soprattutto dal punto di vista critico fuori dall’Iran. Mentre a Teheran i nostri dischi si vendevano al mercato nero. Poi per ovvi motivi non è stato più possibile continuare.
Quindi ho deciso per un cambio radicale, ho detto vengo in Italia come studente per studiare cinema e continuare con la musica. Perché io ero cresciuto da piccolo con mio padre che mi parlava solo di Marcello [Mastroianni], Sofia Loren, Visconti, Francesco Rosi, De Sica… Era un amante di cinema italiano, sono cresciuto con questi film da piccolo. È così che ho scelto l’Italia, perché potevo avere entrambe le cose [n.d.r: il cinema e la musica].
Dopo qualche mese, ho fatto il primo corto con la videocamera dell’università e mi sono innamorato del procedimento: quindi ho venduto la chitarra e gli effetti e ho comprato una piccola videocamera. Da lì ho cominciato a fare le prime esperienze, i primi corti.
Qui ho realizzato dei cortometraggi, uno sui miei genitori, uno sull’arrivo dei rifugiati della rotta balcanica, girato in Slovenia, Austria e Croazia. E poi ho girato un corto di realtà virtuale al carcere di Torino, VR free, che è stato a Venezia, Sundance e in altri festival. A seguire ho girato un documentario che si chiama Star Stuff, che racconta di un viaggio verso tre osservatori astronomici in tre continenti diversi e la vita della gente che vive attorno a questi grandi telescopi in posti remotissimi. È girato in Cile, Sudafrica e alle Isole Canarie.
Poi è arrivato Anywhere Anytime, che è cominciato nel 2018, quindi è uscito dopo sei anni di lavorazione. Ma nel frattempo ho fatto anche un secondo VR molto diverso, un dialogo fra la danza contemporanea e l’arte virtuale.
Sì ho provato strade diverse, media diversi. Anche perché le lavorazioni dei film sono processi lunghi a me piace confrontarmi con domande nuove, fresche. Anche pormi domande linguisticamente diverse da quelle che hai già esplorato, per privarmi del senso di familiarità.
Per Anywhere Anytime hai collaborato con attori non professionisti e questo è un punto cruciale del film. Vorrei che ci raccontassi come hai svolto il casting, come hai trovato i volti giusti per rappresentare Issa e Mario e come è andata la collaborazione sul set.
Ho collaborato per più di due anni con associazioni, case di accoglienze, progetti con gli immigrati su tutto il Piemonte e ho incontrato tante persone, invisibili tanto quanto quelli che già lavorano. Ho stimato veramente tutte quelle persone che hanno una conoscenza completa della società e stanno facendo qualcosa per questi invisibili. A loro spiegavo il progetto e tutte le mie intenzioni ed erano i primi che mi passavano i numeri dei ragazzi. Io li chiamavo uno per uno… quindi avrò fatto più di 200 incontri così, uno per uno.
Alla fine ho trovato Ibra [Ibrahima Sambou, il protagonista, n.d.r.] che lavora come aiuto cuoco in un ristorante a Torino. Poiché non aveva studiato recitazione o cinema, non è che avessi tantissimi mezzi su cui giudicare. L’ho guardato negli occhi, ho stabilito un dialogo onesto e con fiducia abbiamo fatto questo salto insieme. Perché come hai visto, lui è presente in quasi tutte le inquadrature del film, quasi tutti i fotogrammi, quindi se lui non funzionava, non c’era il film. Quindi non era un rischio da poco.
Per quanto riguarda l’approccio, io avevo una mappa del percorso del film, a grandi linee cosa sarebbe dovuto succedere. Ma al di là di quello, il film era a servizio loro, non loro a servizio del film.
Ad esempio, con Ibra abbiamo parlato per mesi, di quando era bambino o di quando a 14 anni era partito come minore non accompagnato dal Senegal verso l’Italia, attraverso la Libia e il Mar Mediterraneo. Abbiamo fatto una mappa dei ricordi e delle emozioni sue, personali, che prendevano spazio nella sceneggiatura e sulle quali abbiamo basato le scene.
Quindi c’è un dialogo tra Ibra e Issa. Anche per piccolissimi dettagli chiedevo a Ibra: tu come lo faresti tu, dove lo metteresti? Fino all’interpretazione della scena: io non lo farei così, io farei così. Quindi il film era al suo servizio, non viceversa. Ecco, questo è stato il percorso.
‘Anywhere Anytime’ di Milad Tanghsir – Il regista e l’attore protagonista Ibrahima Sambou – Foto di backstage di Stefano Meloni
Torino è una città che ha vissuto la sua era d’oro al cinema negli anni 2000. Per citarne uno, Dopo mezzanotte ci svela una Torino notturna, ma molto iconica. La Torino del tuo film è molto più underground, ma neanche un ambiente a cui chiunque si avvicinerebbe frequentando l’underground di Torino. È una dimensione in cui non ci è dato di venire in contatto a meno che non la cerchiamo o non siamo coinvolti direttamente. Ci vuoi raccontare qualcosa in più di questa Torino e della tua Torino?
È bello che hai citato il film di Ferrario, perché Davide ha prodotto il documentario che dicevo, Star Stuff. Una persona splendida. Infatti quando gli ho mostrato il rough cut, mi ha detto: “sembra Napoli o una città del sud, a tratti”. Quindi anche per lui questa città era interessante.
Torino è abituata ad essere filmata: per due decenni è passato questo fascino barocco, ottocentesco: la Mole, Piazza Castello; si gira a Torino per far finta di essere a Roma o a Vienna…
Invece io e altri viviamo in quartieri che non vediamo mai rappresentati minimamente, però anche lì c’è una sua bellezza. Tra l’altro, non per allungare il discorso, io adesso vivo proprio lì.
Non volevo rappresentare quella Torino che si diceva prima, perché non è vera; e poi dall’altro lato cercavo anche un senso di anonimato, perché secondo me questa storia può succedere in qualunque altra città, in Belgio, in Francia, ovunque. Alla fine, è la storia di sopravvivenza di un disgraziato ed è una storia di anywhere anytime.
Quindi c’è questo dualismo, la città è coprotagonista del film: il film è il volto di Issa e la città, volti diversi della città. Però ho cercato anche un senso di anonimato.
Il film appunto si ispira a quello che è il potente immaginario legato al Neorealismo e ad un film in particolare, Ladri di Biciclette, che ha una sua universalità.
Però mi sono chiesta se la storia di Issa possa essere letta anche altrove con la stessa universalità che ha avuto De Sica in quegli anni, in quel tempo, con quello strumento e quella forza narrativa. Poiché in questi giorni sei ospite al Busan International Film Festival, riflettevo su quale poteva essere la ricezione di questa storia all’estero…
Infatti sono molto curioso. Venezia, Toronto, Busan sono tre continenti diversi: mi piacerebbe pensare di poter riuscire a dialogare con culture diverse. L’esperienza a Toronto è stata molto particolare. Il pubblico prendeva ispirazione da altri momenti rispetto all’Italia. Le Q&A con Ibra, il coinvolgimento, guardavano al problema nell’ottica dell’integrazione; questo era molto diverso dall’Italia. Non mi aspettavo una reazione così diversa al film a Toronto, dove è stato accolto in maniera diretta. Invece in Italia ancora in maniera positiva, ma diversa. La gente, negli sguardi e nelle domande, si chiedeva se veramente succedono queste cose nelle nostre strade…
Devo dire che a Toronto ho sentito la voglia di un coinvolgimento più diretto, mentre in Italia una certa riservatezza, come se le persone non riuscissero a guardare il problema negli occhi o fossero troppo scioccati.
Sono curioso di vedere cosa succederà nelle prossime proiezioni. Spero che il film possa dialogare con culture diverse però, figurati, il paragone non reggerà mai. Al confronto del capolavoro senza tempo di De Sica, il mio è un filmetto…
Il film lascia alcune questioni aperte: non sappiamo cosa succederà a Mario arrestato, ma soprattutto non è chiaro se tu come regista, condanni il furto e la fuga di Issa. Se in Ladri di Biciclette, tramite il bambino, De Sica comunica una cosa molto precisa al pubblico, in Anywhere Anytime c’è un po’ più di respiro. Uno spunto interessante per il pubblico, ma mi piacerebbe approfondire che cosa ne pensi tu. [attenzione, spoiler]
Per me non è un finale aperto, bensì molto deciso. Ci sono state anche delle discussioni, anche accese, sulla possibilità di lasciare un finale aperto, magari sul ponte, la penultima scena. Ma io ero convinto di dovermi prendere la responsabilità e raccontare cosa è successo: nel finale si rivela che decisione ha preso Issa, ha deciso di lasciare l’amico e andare avanti.
Tutto il film è avvolto dall’asfalto, dalla strada; quasi non c’è mai il cielo invece, nell’ultima inquadratura. Nell’ultima scena che è un’inquadratura sola, c’è questo cielo grandissimo e la spiaggia, che è un ambiente meno ostile rispetto alle strade. Però si percepisce come basti una chiamata per rompere questo vetro sottile di stabilità. Sebbene vada avanti però, è condannato a portare con sé quello che ha fatto, tutto quello che è successo in quel weekend, la decisione che ha preso.
Ibra diceva una cosa interessante durante il tour nel suo modo semplice: diceva, due amici non possono tutti e due stare in carcere, uno deve stare fuori. Il finale viene da una cosa: la sopravvivenza. Penso si possa provare a capire o avere compassione per un’azione dettata dalla sopravvivenza. Ibra ha fatto una cosa orribile, però personalmente è lì nel finale che lo vedo diventare un essere umano. Se fino a quel momento poteva rischiare solo di essere un immigrato, è quella cosa orribile che lo rende completo come tutti noi, con zone di ombra e zone di luce.
E questa è la giustizia più grande nei confronti di questo personaggio: mostrarlo nella scelta. Ibra non è soltanto il ritratto di una vittima: diventa completo con ombra e luce con tutti gli esseri umani.
‘Anywhere Anytime’ di Milad Tanghsir – Il regista e la troupe – Foto di backstage di Stefano Meloni
Com’è stata l’esperienza a Venezia?
Super felice. Poi, Ibra non aveva mai visto il film prima perché non ha voluto. Di norma è una persona introversa, ma lì è stato catartico, si è emozionato tantissimo, è stato un momento di festa e di condivisione. E sono venuti tutti e tre; già il percorso con la barca dalla stazione a Lido per loro, per me, per tutti era un sogno.
Sono contento che tutto quel processo di ricerca con i ragazzi non sia stato invano, con tutti quegli incontri, che magari erano il punto più alto della loro settimana. Anche Ibra era consapevole di dare voce a chi non ce l’ha, come nell’ultima mezz’ora del film in cui lui non ha neanche una battuta. È una storia di invisibili e senza voce. Quindi è stato bellissimo, un sogno portarlo a Venezia.
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