Janine, Jenin 2024 è approdato a Middle East Now festival, nel tardo pomeriggio del 19 ottobre, in anteprima italiana alla presenza del regista Mohammed Bakri. Il documentario vuole puntare l’attenzione sulla realtà del conflitto israelo-palestinese, nel campo profughi di Jenin.
Alla sua base vi è un evidente criterio di narrazione circolare, visto che già nel 2002 Bakri aveva ripreso le condizioni del campo profughi di Jenin, all’indomani di un pesante assalto mosso dall’esercito israeliano. Un impegno dietro la cinepresa che costò caro a Bakri, in termini di censura (in Israele) e due processi giudiziari.
La questione della circolarità
Janine, Jenin 2024 fa eco, come brevemente accennato, al documentario Jenin, Jenin, datato 2002. La storia è sempre la stessa e dolorosamente si ripete, con l’unica differenza nei progressi della tecnologia militare israeliana. Anche i protagonisti sono i medesimi che in quel campo, in condizioni di povertà e difficoltà, hanno vissuto e sono cresciuti. È il campo profughi di Jenin, dunque, il vero protagonista del documentario, che permette un’analisi non solo del contesto storico nel quale si trova – talvolta sembra lì imprigionato – ma anche delle storie di vita delle persone che lo popolano.
È un eterno ritorno dal gusto amaro, una storia circolare che non è stata in grado di insegnare nulla, ma solo privare. Lo spettatore può rivedere quegli occhi di bambini spaventati del 2002, ormai adulti; divenuti ora smarriti e persi, segno di un’infanzia perduta e mai vissuta, accompagnata dall’ombra nera di rivendicazione e morte.
I protagonisti di Janine, Jenin 2024
Bakri riprende fedelmente la vita all’interno del campo profughi di Jenin, e lo fa con un intento di ri-scoperta delle conseguenze nell’essere umano di un conflitto lungo almeno settant’anni. Con un movimento quasi intimistico, ecco che la cinepresa si concentra, quindi, sugli sguardi, sugli occhi, sulle lacrime, sulle espressioni e ancora sui volti, di quegli stessi protagonisti.
Che il più delle volte sono bambini; perché le loro parole, i loro discorsi, le loro reazioni sono molto più spontanee e meno controllate rispetto a quelle degli adulti. Una bambina rimane sconvolta dal degrado che vede intorno a sé (la sua casa distrutta, i bombardamenti che hanno portato via la sua stanzetta); un altro bambino è terrorizzato dal rumore degli aerei. Un altro ancora piange per ha fame e non c’è nemmeno l’acqua per lavarsi.
Alla domanda (più volte espressa nel documentario), “che impatto avrà tutta questa sofferenza vissuta da un’intera generazione di bambini nella loro vita?”, pare che le immagini offrano quindi una risposta chiara.
Il cuore del campo profughi di Jenin batte ancora
Di fronte a tutto questo dolore e questa disperazione, però, Jenin non si arrende. Sono evidenti l’orgoglio e la forza dei suoi profughi, coscienti della storia che li accompagna da quel lontano 1948, quando tutto ebbe inizio, e che li rende sicuri di essere “dalla parte giusta”.
“Tutto il campo è un cuore solo, una sola mente, molti corpi, ma una sola anima”
Janine, Jenin 2024 diviene quindi un inno alla resistenza, armata di una sola cinepresa e della volontà di raccontare un massacro. Di farlo vedere, di mostrare le più personali sofferenze, le atroci privazioni, i morti, e le conseguenze psicologiche a lungo termine. Di fronte a una precisa scelta registica di assumersi la responsabilità emotiva e di non ignorare il dolore, di prendersi cura – per quanto possibile – della paura dell’indifferenza, di cui è vittima il campo di Jenin.