Trifole è il film di Gabriele Fabbro con, tra i tanti, il sostegno di Film Commission Torino Piemonte. Il film è al cinema dal 17 ottobre con Officine Ubu.
Per spiegare meglio Trifole abbiamo fatto alcune domande al regista Gabriele Fabbro.

Trifole di Gabriele Fabbro
Che Trifole sia il racconto di un viaggio, poi vedremo di che tipo, ce lo dicono le immagini che aprono e chiudono il film, ambientate nella stazione ferroviaria di un paesino delle Langhe.
Sono d’accordo. La presenza del treno rimanda a quello, ma anche alla modernità che finisce per spazzare via i protagonisti del film.
Di fatti la costruzione della sequenza finale, con il montaggio alternato che cortocircuita il tempo e lo spazio spezzando le trame della narrazione rende bene l’idea della cancellazione di un mondo, quello delle langhe con le sue tradizioni e liturgie.
Mi fa molto piacere che tu lo dica perché il montaggio così organizzato voleva rendere l’idea della modernità che sgretola tutto ciò che trova, finanche i ricordi.

I personaggi e la struttura narrativa
La struttura narrativa è costruita sul tipico viaggio dell’eroina di cui Trifole prende in rassegna i vari archetipi a cominciare dal personaggio di Igor che, oltre a esser il nonno di Dalia, ne è anche il mentore della ragazza.
Sì, sì, esatto, Dalia è l’eroina che a un certo punto si perde ed è costretta a lottare per ritrovare se stessa. Attraverso di lei il film parla del rapporto tra natura e modernità. Dalia rappresenta quest’ultima che, al contrario della prima, è mossa dal desiderio di ottenere tutto e subito, al contrario della seconda che invece di accelerare si regola con i propri tempi.
La crisi di Dalia è la conseguenza di un modus operandi che non si preoccupa della felicità dell’uomo.
Sì. All’inizio del film lei non sa più cosa ama. Si sente persa perché è stata abituata a inseguire il successo senza poter mai sbagliare. In questo senso il viaggio è concentrato su come Dalia riuscirà a levarsi dalla testa questi valori. Per farlo deve lasciarsi andare e tornare a capire gli insegnamenti della natura che insegna ad ascoltare e rispettare gli altri. Solo così si può essere risolti e compiuti.

La sequenza iniziale di Trifole di Gabriele Fabbro
A questo proposito la lunga sequenza iniziale sembra fatta apposta per rappresentare quanto appena detto. I campi lunghi su Dalia, che attraversa a passo svelto il paesino, mettono a confronto la frenesia della ragazza con la calma ieratica delle persone del luogo. La prima impressione è che sia fuori posto rispetto al resto del paesaggio.
Proprio così. Dalia è talmente frenetica da non accorgersi di ciò che la circonda. Attraversa il paese senza guardare quello che le sta attorno. Nella prima parte il suo è un personaggio annientato e fuori luogo, del tutto scollegato con le sue radici e con l’ambiente naturale. Solo quando tornerà a “sporcarsi le mani” potrà ritrovare se stessa.
Non a caso l’armonia del paesaggio che vediamo in quelle prime immagini è interrotta dal dettaglio del piede di Dalia nella pozzanghera di fango, chiara illusione alle difficoltà che l’aspettano una volta arrivata a destinazione.
È così, anche perché il mondo delle langhe è legato alla terra e quindi al fatto di doversene sporcare. Per quei posti è una cosa naturale ma lei e la maggior parte delle persone non sono più abituate. Succede un po’ la stessa cosa sempre all’inizio, quando lei scaccia una coccinella che si era posata su di lei mentre più avanti aiuta un bruchino che vede nel balcone. A partire dal piede nel fango il film è pieno di questi piccoli scarti che un po’ alla volta portano al cambiamento finale.
Nonostante i contrasti Dalia e Igor sono due personaggi abbastanza simili. Anche Igor, come la ragazza, sembra aver perso la propria rotta. Pur rimanendo attaccato ai propri principi sembra fraintendere la realtà.
Proprio così, il film testimonia l’incontro di personaggi abbastanza diversi che però si ritrovano a fare lo stesso percorso. Alla fine entrambi hanno bisogno dell’altro. A un certo punto se ne rendono conto dando vita a un legame che culmina nella scena finale che ovviamente non riveliamo.

Il paesaggio
Le Langhe sono tra i protagonisti della storia. Non parlo solo del paesaggio naturale, ma anche dell’insieme di miti, leggende e tradizioni popolari che nel film vengono trasfigurate per diventare elementi di quella che è un’autentica fiaba.
Sì, è una fiaba di cui però io non ho inventato nulla perché tutto quello che si vede mi è stato raccontato. Due anni fa prima di iniziare a scrivere la sceneggiatura sono andato nelle Langhe per fare le mie ricerche e, quasi come un documentario, ho messo insieme queste storie all’interno di una struttura narrativa.

A proposito di documentario, a un certo punto succede che questo entri all’interno della finzione con un equilibrio di solito difficile da raggiungere. Mi riferisco a quando Dalia si intrufola nel festival mondiale del Tartufo di Alba. In quel caso è tutto vero, con gli attori che interagiscono all’interno di un mondo assolutamente reale.
Per me è stato uno dei momenti più belli con gli attori che interagivano con persone vere. A un certo punto si è creato un momento magico dove cinema e realtà si sono mescolati l’uno con l’altro. La troupe era impaurita perché in quella situazione non si ha molto controllo del set invece noi siamo diventati parte del caos.
Ti sei mantenuto coerente allo status dei personaggi lasciando che ognuno parlasse la propria lingua d’origine. Oltre al surplus di realismo il fatto che Igor e Dalia facessero fatica a capirsi ti è servito per materializzare le loro incomprensioni caratteriali.
Esatto. Per me, più loro due erano diversi e meglio era. Poi questo mi serviva per dare conto della mancanza di dialogo tra antico e moderno.

Trifole di Gabriele Fabbro: una fiaba?
Abbiamo detto di come Trifole possa considerarsi una fiaba. A legittimarlo a un certo punto entra in campo la figura della Masca, la strega appartenente al folklore locale.
La cosa bella è che nelle langhe ci sono molti contadini che credono ancora all’esistenza di queste figure. Esiste addirittura un bosco con un sentiero a esse dedicato. Nel passato queste donne venivano trattate come fattucchiere e dunque trucidate ingiustamente. È tutto documentato. In questo senso ho proceduto come se Trifole fosse un documentario, senza cambiare quasi nulla di ciò di cui sono venuto a conoscenza.
Come le opere di Walt Disney anche Trifole riesce a trovare un tono e uno sguardo così trasversali da essere un film adatto a grandi e piccini.
Penso che quella sia stata la cosa più coraggiosa che ho fatto perché ormai il cinema sta andando in una direzione sempre più legata alla modernità e quindi al fatto di dover impressionare tutti subito. Parlo anche di film che a me piacciono molto, ma che appunto usano questo stratagemma legato ai video di TikTok e Instagram, cioè quello di catturare fin da subito l’attenzione del pubblico per impedirgli di passare ad altro. Da parte mia ho pensato a cosa volevo vedere da piccolo. Insomma ho impostato la regia ricordandomi cosa facevamo da bambini, optando per una tecnica di ripresa molto minimalista.

Anche per i più piccoli
Anche la fotografia mi pare segua questo principio. L’illuminazione è molto chiara e questo permette anche ai più piccini di vedere bene e di vedere tutto.
Ho semplificato molto a livello visivo. Con il mio direttore della fotografia c’è sembrato che il mondo delle langhe fosse molto calmo e che dunque non bisognasse stravolgerlo con molti movimenti di macchina. Ogni tanto ci sono dei Dolly, ma in generale abbiamo cercato soluzioni poco elaborate nella volontà di rispettare la tranquillità di quel mondo. Piuttosto abbiamo preferito concentrarci soprattutto sui dettagli, far sentire di più gli odori e magari far vedere la luce che entra nella casa di Igor. Di natura amo muovere la mdp ma qui c’è sembrato giusto togliere anziché aggiungere.

In questa direzione va anche la presenza di Birba, il cane di Igor, che è tra i protagonisti del film contribuendo a giustificare l’interesse dei giovanissimi. La sua è una presenza davvero empatica.
Birba è incredibile. Abbiamo visto un sacco di cani da tartufo, ma lui è stato l’unico a non agitarsi. In più non abbaia mai il che andava bene con la saggezza trasmessagli da Igor. È stato addestrato da uno dei trifolari migliori della zona che poi purtroppo è morto.

La protagonista
Nella parte di Dalia Ydalie Turk è non solo brava e affascinante, ma anche del tutto in parte perché il suo viso fuori dal comune andava bene per un personaggio estraneo all’universo raccontato nel film.
Ydalie Turk l’ho presa perché è una delle attrici emergenti più brava che io conosca. È al suo primo film e ci tenevo a dare spazio a giovani emergenti da affiancare a personaggi più famosi. Una volta trovata la sceneggiatura giusta, che peraltro abbiamo scritto insieme, è stato naturale farle interpretare la protagonista.
In lei è grande la capacità di meravigliarsi, il che si confà alla natura del film.
Per eleganza e grazia di movimenti ricorda Grace Kelly. In certi momenti questa armonia la mette in connessione in maniera profonda con la natura.

Gli altri interpreti
Accanto a Ydalie recitano due attori di fama come Umberto Orsini e Margherita Buy.
Sono stato fortunato perché la produzione ha fatto di tutto per averli. Orsini l’ho scelto perché mi ricordava molto mio nonno. Siamo entrati da subito in sintonia diventando come fratelli. La misura del nostro rapporto è data dalla realizzazione del suo monologo che abbiamo inventato il giorno prima. Io gli avevo mandato il testo su WhatsApp, lui l’ha riscritto per poi provarlo assieme in camerino prima di girare. Umberto ha capito in pieno le potenzialità del personaggio e questo ha creato un grande rispetto reciproco che ha creato la magia del set. Peraltro Umberto è rispettosissimo di tutte le figure presenti sul set, cosa che purtroppo non sempre succede. Per fare il film ha fermato la sua tournée teatrale e questo è un altro segno della sua generosità.

Con la Buy invece com’è andata? Sono andata a trovarla a Roma. La conoscevo soprattutto per i film con Nanni Moretti. Fisicamente era molto simile a Ydalie quindi andava bene per interpretare il suo personaggio. Anche con Margherita ci siamo trovati subito e come dice lei a unirci è stato il fatto che siamo due pazzi. La sua parte non prevedeva molte pose, ma lei lascia il segno grazie alla sua padronanza fisica: per come si muove, per le espressioni del corpo che sostituiscono la parola. Margherita interpreta una madre stravolta dalla modernità. La vediamo sempre lavorare e reagire in maniera robotica come quando suggerisce alla figlia di mettere il padre in una casa di riposo. Insomma il suo era un ruolo delicato e lei è stata davvero brava a trovare i giusti toni.
Il cinema di Gabriele Fabbro oltre Trifole
Parliamo del cinema che ti piace.
Sono molto curioso nel senso che mi piacciono film molto diversi tra di loro. Bernardo Bertolucci è un regista su cui torno spesso e che sono cinque/sei anni che studio ossessivamente. Mi piace quello degli anni sessanta e settanta in cui si sperimentava molto. Penso a I 400 colpi, a Ladri di Biciclette. Ancora, amo Alfred Hitchcock, la fotografia dei film di Stanley Kubrick e poi come figura d’artista Ennio Morricone. Lui diceva sempre che noi siamo quello che studiamo. È a lui che mi ispiro per approcciare il mio lavoro.