Dopo essere stato presentato in concorso al festival di Venezia, Iddu di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia arriva nelle sale con 01 Distribution. Per analizzarlo meglio abbiamo fatto alcune domande ai registi Antonio Piazza e Fabio Grassadonia.
La Sicilia di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia

Il vostro è un cinema che torna sempre alle proprie radici dimostrando come, per parlare della Sicilia, non si possa fare a meno di affrontare la questione mafiosa.
Nel momento in cui abbiamo deciso di diventare autori delle nostre storie è chiaro che siamo dovuti tornare all’esperienza di vita fatta (da entrambi) a Palermo negli anni Ottanta e Novanta, uno dei periodi più oscuri e difficili della storia italiana. Questo ha voluto dire confrontarci con le ferite e le cicatrici che quegli anni hanno lasciato nella nostra vita. L’abbiamo esplorata in tre film appartenenti a generi diversi confrontandoci con quelle che per noi sono le conseguenze antropologiche, sociali e culturali del dominio mafioso del trentennio precedente.
Un periodo storico riassunto dall’insieme di maschere, di tic e di ossessioni rese in una maniera grottesca, surreale e folle in cui è possibile riconoscere la lezione di Luigi Pirandello.
La tua è un’affermazione impegnativa perché fa riferimento a uno degli assi portanti della cultura siciliana e anche italiana. Di certo il tragico che si dissolve nel ridicolo è una caratteristica pirandelliana ed è il tono che, in qualche modo, abbiamo scelto per questo film. Ciò che ci unisce al grande scrittore siciliano è che anche per noi come lui il tragico e il ridicolo non ce lo siamo inventati, non è una nostra trasfigurazione della realtà, ma lo specchio esatto di ciò che abbiamo visto.
Iddu, infatti, pur mettendo al centro il personaggio di Matteo Messina Denaro è comunque un film corale, una danza vorticosa di tipi umani che abbiamo ricavato dalla lettura dei pizzini e in generale dal mondo che ruotava attorno al famigerato latitante. Anche se trasfigurati dalla lente del racconto, i fatti descritti nel film si sono tutti verificati e in qualche modo erano quelli a essere ridicoli e grotteschi. Non siamo stati noi a dargli quel tono, lo abbiamo solo rispettato.
Se poi vogliamo dirla tutta Iddu, più che raccontare una storia, descrive quel gran vuoto intorno a cui parti significative del contesto sociale siciliano-italiano hanno smarrito il proprio senso, la propria dignità, la propria decenza. A noi, Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, Iddu è interessato perché ci è sembrato lo specchio perfetto per far emergere le figure che si muovono e si agitano all’interno di una palude stagnante.

Ad avvalorare quello che avete detto la riflessione successiva alla domanda precedente prevedeva di chiedervi se siete d’accordo sul fatto che la realtà contemporanea ha addirittura superato questo tipo di rappresentazione. Voglio dire che, rispetto alla drammaticità dei fatti, le reazioni dei protagonisti della storia contemporanea sono andate oltre al grottesco e al ridicolo di cui si sta parlando.
Indubbiamente. Come si diceva il tono e l’atmosfera e il senso dell’esplorazione tematica è venuto di pari passo con l’emersione di un certo tipo di mondo. In questo caso quello che per un trentennio ha volteggiato spericolatamente intorno al latitante. Come oggi, anche allora si trattava di ego debordanti, di narcisisti patologici, di manipolatori criminali anche nel loro modo di distorcere la realtà. Parliamo di persone che si mettono in scena costantemente.
Iddu: commedia grottesca e surreale

Iddu è l’ennesima incursione nel genere. Se Salvo era stato un noir criminale e Sicilian Ghost Story una fiaba gotica Iddu può considerarsi una commedia grottesca e surreale.
Stai parlando di un aspetto per noi molto importante anche per il significato che per noi ha il lavoro che stiamo facendo. Nel senso che volevamo tornare a confrontarci con ciò che ci ha formato come esseri umani. Siamo quello che siamo perché abbiamo attraversato un certo periodo storico all’interno di un determinato luogo. E poi sin dall’inizio ci eravamo dati come obiettivo quello di sviluppare una trilogia con la quale affrontare e risolvere tematicamente alcune cose che a noi stavano a cuore all’interno di tre generi diversi. Perché noi siamo comunque amanti del cinema di genere e di diversi generi. Il nostro primo film era un noir, il secondo una strana favola nera, mentre Iddu ci ha subito dato la possibilità di confrontarci con quello che è un genere nel quale l’Italia ha regalato capolavori nel corso della sua storia cinematografica. In questa ottica il personaggio che ci siamo ricreati e reinventati chiaramente è nato intenzionalmente per dare a Toni Servillo la possibilità di confrontarsi con le grandi maschere della commedia all’italiana.

Secondo me il valore aggiunto del vostro lavoro è quello di far sì che, pur facendo riferimento a generi ben precisi, i vostri film rimangono sempre opere molto personali. Lo sono anche per quell’imprinting che vi deriva dalla cultura della vostra terra. Martin Scorsese ha raccontato più volte storie di mafia, ma lo ha fatto all’interno di un solco classico mentre voi è come se utilizzaste una lente deformante che rende questo genere diverso dal solito.
Martin Scorsese è portatore di un’altra sensibilità, di un’esperienza di vita condotta in altri luoghi. Noi siamo sempre legati al senso del nostro vissuto siciliano perché per quanto ci riguarda, anche se all’epoca non ci conoscevamo, per provare a sopravvivere a quella dura realtà in cui vivi, cresci, diventi adolescente, vai all’università, non puoi fare altro che ricorrere all’immaginazione provando a pensare a impossibili vie di fuga. Parliamo di un meccanismo di autosalvezza personale che ci ha portato a scappare dalla Sicilia all’inizio degli anni 90. Quando poi ci siamo ritornati come autori, questa possibilità di attraversare il reale senza farsi schiacciare dal mero dato della realtà è diventata una nostra indole, una nostra necessità interiore. Peraltro raccontare la storia mettendo al centro questo personaggio, facendo emergere il ridicolo dal tragico, ci sembrava l’unico modo possibile per raccontarla dal punto di vista etico.
Proprio ieri ci hanno ricordato una frase di Pierpaolo Pasolini che viene sempre citato spesso a sproposito e che invece qui calza a pennello. La frase dice più o meno: “l’Italia è un paese ridicolo e sinistro. I suoi potenti sono delle maschere comiche vagamente imbrattate di sangue, di contaminazioni tra Molière e il gran Guignol”. Effettivamente l’idea di maschere comiche imbrattate di schizzi di sangue è un’immagine consona per il nostro film.
Leonardo Sciascia diceva un’altra cosa che ci piace molto e cioè che siamo gente davvero simpatica a cui però spesso verrebbe voglia di staccare la testa. Tali affermazioni in effetti colgono un po’ l’aspetto di quell’umanità che abbiamo messo sotto la lente d’ingrandimento.

Una versione privata del boss nel film di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
L’assunto politico del film, quello di fare luce su una figura temuta e sconosciuta della Storia italiana, concorre a ridimensionarne l’alone leggendario. La versione privata di Matteo Messina Denaro incute meno paura proprio perché ne conosciamo i suoi risvolti più intimi e anche più gretti.
Siamo d’accordo con te: le letture del film si inseguono l’una con l’altra e noi le viviamo esattamente come lo stai descrivendo. In effetti Iddu è stato un fantasma fino al momento dell’arresto, tanto che qualcuno diceva che fosse morto. Su di lui circolavano parecchie leggende quindi il nostro primo lavoro è stato di distinguere quelli che ci sembravano fatti certi da tutto il resto. Fin da subito ci sembrava di avere a che fare con una personalità da ipertrofico narcisista. Se chi lo ha aiutato a restare per 30 anni latitante è rimasto nel buio di Denaro, dopo l’arresto si sono sapute molte cose che hanno in parte confermato le nostre intuizioni, specialmente in riferimento al profilo psicologico della sua persona.

Al cinema le gesta del mondo criminale sono sempre state in bilico tra condanna e ammirazione, finendo talvolta per suscitare lo spirito di emulazione. Al contrario i vostri lavori, pur occupandosi dello stesso milieu, sono andati sempre nell’opposta direzione disinnescando il meccanismo imitativo attraverso la mancanza di epica narrativa.
Quando per diversi anni abbiamo studiato questi argomenti a emergere è stata una grande miseria umana che poi è quella che abbiamo cercato di raccontare nei nostri film. Come registi il nostro lavoro è stato quello di lavorare all’interno dei generi, ma sempre disattendendo le aspettative. Questo è stato uno un altro obiettivo che ci siamo sempre dati.
Realtà in discussione nel film di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Nella vostra opera si parte sempre dal principio di realtà che però in ogni film viene messo in discussione attraverso una vertigine visiva. Succedeva in Salvo in cui nella prima scena riducevate il protagonista al riflesso incondizionato dell’occhio che attende il suono della sveglia per fare entrare in azione la macchina da guerra. Accadeva in Sicilian Ghost Story dove l’evoluzione iniziale della macchina da presa prefigurava la dimensione favolistica. Succede ancora di più in Iddu in cui l’unità di sguardo, di spazio e di tempo è destinata a sgretolarsi attraverso punti di vista e ricordi che da una parte ricostruiscono la formazione criminale del giovane Matteo Messina Denaro, dall’altra sembrano il segno di una deflagrazione esistenziale che di lì a poco, dopo la morte del padre e mentore, costringerà il futuro boss a rinunciare alla vita attraverso una latitanza che non prevede libertà.
Assolutamente. Anche la riflessione sul tempo di cui parli è una constatazione centratissima perché il contesto antropologico, sociale e culturale della vicenda sguazza in un eterno presente che non muta mai di segno perché qualsiasi possibile sviluppo di futuro è ormai negato. In questo tempo che rigenera sempre se stesso un po’ alla volta il senso si smarrisce e la follia prende il sopravvento sugli altri aspetti della condizione umana.
Morte e morti

Iddu è un film di morte e di morti. Lo è la scena iniziale, concentrata sugli ultimi istanti di vita del padre del futuro boss. Lo sono Denaro e Catello nel loro essere dei dead man walking. Lo è la latitanza del boss, costretto a rinunciare alla vita per vivere rinchiuso in una casa che sembra una pietra tombale. Lo sono i giorni di Catello che passa dalla prigione a una casa che sembra un loculo. A suggellare questo concetto è proprio il personaggio interpretato da Toni Servillo quando, riferendosi alla lettera da inviare a Denaro, dice che dovrà assomigliare all’invocazione di un fantasma dall’oltretomba.
Sì, tutto quello che hai detto è vero. Nella scena che hai citato, quando Catello dice alla moglie di essere ancora vivo e dunque che non vuole essere seppellito dentro quella casa la moglie gli risponde che in realtà non lo è. Come diceva Fabio poco fa quelli che incontriamo sono dei prigionieri di un tempo paludoso che ripetendosi all’infinito diventa un tempo di morte. Anche in questo senso tragico e ridicolo si fondono. In apparenza sembrerebbe che il ridicolo appartenga solo alla dimensione di Catello. In realtà riesce a sfondare i muri della prigione del latitante restituendone la miseria umana della sua vita. Nonostante il grande ego Iddu è prigioniero di un’esperienza claustrofobica mentre Catello è un uomo assediato dal senso della fine. Come gli dice la moglie, Catello è un ex di tante cose, concetto questo che richiama ancora una volta una condizione terminale. In generale tutti i personaggi del film sono perseguitati dai propri fantasmi e dalle proprie ossessioni.

La dimensione fantasmatica è testimoniata anche da come li mettete in scena. Questi infatti entrano ed escono dal quadro come ombre di una vita quotidiana che non esiste più. In questo senso Iddu sembra una sorta di viaggio dantesco.
Sì, entrano ed escono dalla scena ed entrano ed escono dal passato per poi venire sommersi dalle proprie ossessioni. Per questo come dicevi tu Iddu è un mondo di fantasmi, di morti che si agitano perché ancora si rifiutano di capire che sono tali.

Meno azione e meno spazio
Iddu è il vostro film più parlato, quello in cui c’è meno l’azione e dove a dominare non è più lo spazio esterno – come capitava negli altri film – ma ambienti chiusi e stretti. Aspetti, questi, che nell’insieme avvalorano il discorso sul senso della fine che incombe sui personaggi e sulle cose.
Esatto. Raccontiamo una doppia prigionia, quella dei due protagonisti, di conseguenza gli interni sono prevalenti. Poi sono d’accordo sulla prevalenza del parlato. Rispetto ai nostri lavori Iddu è un film pieno di dialoghi per varie ragioni. Una delle quali dipende dal fatto che si tratta di persone che si mettono costantemente in scena e che cercano di delimitare il loro palcoscenico come mossa disperata per sopravvivere. E poi anche perché quello che è veramente diverso tra Iddu e i due film precedenti è che in quelli c’era comunque un incontro anche se in condizioni ostili come quelle del mondo degli adulti in Sicilian Ghost Story o in quelle che fanno da premessa alla conoscenza tra Rita e Salvo nel nostro primo film. In quei casi si trattava di un confronto che cambiava la vita o che comunque ti costringeva a cambiare pelle anche a costo di perdere la vita. Nel tempo di Iddu tutto questo non è possibile perché non ci può essere nessun incontro.

Catello e Denaro sono espressioni di una sorta di regno parallelo in cui Denaro è il re – come suggerisce il ritratto incoronato che campeggia a casa della sorella – e Catello il giullare di corte. In questo senso Iddu potrebbe essere una tragedia schakespeariana declinata secondo i toni di cui abbiamo detto.
Sapevamo che calare la cupezza della tragedia schakespeariana in un mondo pirandelliano poteva creare degli scompensi interessanti. Come succede in molte opere dello scrittore inglese anche Iddu è un uomo ossessionato dal padre dalla cui influenza prova ad allontanarsi cercando di creare qualcosa di suo. Quando lo si fa, come succede a lui, si finisce per replicare se stessi senza però riuscire ad allontanarsi dalla tua natura.
Gli interpreti nel film di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Raccontando persone comuni i film precedenti erano stati interpretati da attori non in parte sconosciuti al grande pubblico. Qui invece dovendovi confrontare con due personaggi importanti e con un protagonista che in qualche modo è entrato a far parte dell’immaginario collettivo avevate bisogno di commedianti di lungo corso, capaci di far sentire quella messa in scena dei personaggi di cui avete appena detto. È così?
Nel momento in cui abbiamo raccontato a Nicola Giuliano, il produttore del nostro film, l’idea che volevamo realizzare, sia per lui che per noi era chiara l’intenzione di volere affidare due personaggi così complessi e profondamente diversi ad attori che davvero potessero incarnarne e sostenerne il peso. Per Matteo abbiamo pensato a Elio Germano perché il suo modo di lavorare sui personaggi è stato sempre di un certo tipo. Volevamo in qualche maniera un attore di grande peso che riuscisse a incarnare fisicamente questo tipo di personaggio mentre per Catello avevamo bisogno di un interprete di grandissima esperienza per omaggiare con la sua maschera le grandi figure messe in scena da Gassman e Scola. Da parte nostra siamo sempre stati attenti a non farlo diventare una macchietta affidandoci alla capacità di Servillo per restituirne la miseria in senso umano e non caricaturale.

Proprio perché il film suggerisce la connivenza tra l’ordine costituito e le spinte eversive la ricerca della maschera ha riguardato anche i personaggi al di fuori dell’entourage del latitante. Quella prestata da Fausto Russo Alesi al colonnello dei carabinieri è altrettanto strepitosa ed efficace.
Sono d’accordo con la tua analisi. Tra l’altro ti faccio notare che Fausto è palermitano come noi, ma nel film lo facciamo parlare con accento padovano perché essendo un film di maschere Iddu è anche un contenitore di forti accenti linguistici: c’è il trapanese, il campano di Catello Palumbo, il padovano del colonnello, il bergamasco dell’appuntato dei carabinieri, il calabrese dell’investigatrice. La questione delle maschere per noi era di vitale importanza perchè queste ci permettono di raccontare non solo la storia della Sicilia, ma anche quella dell’Italia intera. Tornando a Fausto Russo Alesi, la sua maschera doveva essere così forte proprio perché il suo personaggio doveva tenere testa a un commediante del calibro di Catello.
Tra commedia e citazioni
Prima avete parlato della grande commedia italiana, ebbene, quando ho visto per la prima volta la sequenza in cui Elio Germano detta la lettera a un’irreprensibile Barbora Bobulova non ho potuto fare a meno di pensare all’analoga scena con Totò e Peppino De Filippo in Toto, Peppino e la Malafemmina. Ho fatto male?
Hai fatto benissimo perché nessuno pensa che nei nostri film ci sia spazio per questo genere di citazioni. Il nostro amore per Totò è qualcosa con cui siamo cresciuti e l’omaggio che gli abbiamo fatto lo si ritrova anche in alcune cose legate al mondo di Catello dove emerge anche la presenza di Edoardo De Filippo. Nei film precedenti queste citazioni sono più camuffate mentre qui le abbiamo potuto rendere molto più esplicite.

Una volta Fabrice Luchini mi disse che la cosa più difficile per un attore è recitare il ridicolo degli esseri umani. Mi pare che questo assunto renda bene il grado di bravura dell’interno cast. Siete d’accordo?
Una delle esperienze più entusiasmanti legate alla realizzazione del film è stata quella di essere riusciti a lavorare con un cast straordinario in cui anche coloro che avevano poche scene sono riusciti a tratteggiare in maniera perfetta il senso di una vita e di un essere umano. È stato così per Antonia Truppo nella parte della sorella del boss. Penso a Barbora Bobulova che ospita nella sua casa questo strano animale e che a un certo punto si rivelerà un personaggio più complesso e misterioso di quanto si credeva, a Filippo Luna che in pochi momenti tratteggia il padre di Matteo. E poi Betty Pedrazzi, la moglie di Catello, e Pino Tumino che in qualche modo è il candido di un mondo dove non ti puoi permettere di esserlo perché sennò sei fesso. Tutto il cast ha seguito in maniera millimetrica questa macchina di senso e questa è stata la forza del film.

Il cinema di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Parliamo delle vostre preferenze cinematografiche.
Fabio Grassadonia. Per quanto ci riguarda ci sono stati degli autori che nel tempo hanno cambiato la mia percezione del cinema. Nonostante ciò io e Antonio non abbiamo mai smesso di scoprirne di nuovi continuando a vedere quanti più film possibile. Da mio padre ho preso la passione per i western rivedendo in maniera incessante il cinema di Howard Hawks e di John Ford. Se poi devo dirti il nome di due autori che mi hanno influenzato ti dico Michael Cimino e Miloš Forman.
Antonio Piazza. Se ti dovessi parlare dei cineasti che veramente hanno influenzato il mio sguardo ti dovrei parlare di Roman Polanski e Alfred Hitchcock. In realtà, l’episodio decisivo che mi ha fatto capire come nel cinema potevano accadere le cose più strane è stata la visione del deretano di Elena Fiore in Mimì Metallurgico ferito nell’onore, il film di Lina Wertmuller con Giancarlo Giannini. Vidi quel film a soli quattro anni in un cinema di Termini Imerese insieme a mia madre e mia nonna e ne rimasi colpito nonostante fossi molto piccolo. Tra i registi dei giorni nostri, un autore fenomenale per me è Rodrigo Sorogoyen.