It’s What’s Inside è un labirinto psichedelico, in cui perdersi sperando di non ritrovarsi, perché ritrovandosi il film di Greg Jardin svela tutte le sue lacune e i suoi punti ciechi. It’s What’s Inside è un’esperienza da vivere come fosse un gioco da tavolo da fare con gli amici, un intrattenimento in cui lo spettatore può essere voyeur del dramma o protagonista. “Il programmatore è un po’ come il master di Dungeons and Dragons” dicono nel film, ma si riferiscono a noi e ci stanno chiedendo che parte vogliamo interpretare su questa scacchiera. Il film, distribuito da Netflix, è pieno di problemi che partono dall’appiattimento dei personaggi accartocciati nei loro stereotipi a una malcelata critica a ciò che siamo rispetto a ciò che mostriamo. L’impressione è quella di guardare una nave imbottigliata: bellissima, ma pur sempre una nave imbottigliata.
It’s What’s Inside, come siamo arrivati a questo punto
La trama del film non regge il peso del suo concept, bellissimo (tra l’altro) e riutilizzabile dalla piattaforma potenzialmente all’infinito. Il lavoro di Jardin riprende quello di Halina Reijn, regista di Bodies Bodies Bodies, riproponendone la stessa narrazione ma perdendo l’arguzia intellettuale. Almeno apparentemente, perché la verità è che il film di Jardin risuona trionfante nel suo scheletro. Difficilissimo, complesso eppure semplice e semplicistico nella sua resa. Inoltre, il regista riprende l’espediente di Talk to Me, pellicola horror dei fratelli Philippou, sostituendo la mano maledetta con un macchinario contenuto in una valigetta. Il bagaglio si illumina dall’interno ma, a differenza del suo omonimo più famoso presente in Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994), questa svela il suo contenuto.
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It’s What’s Inside: il terrore di essere nei panni degli altri
La trama è pressoché semplice e uguale a molti ingranaggi che abbiamo visto e rivisto. Un gruppo di amici si ritrova a casa di Ruben (Devon Terrell) un ricco erede orfano che vive a Vagina Mansion (così soprannominata dal gruppo per le stranissime statue aguzze presenti in giardino) e che sta per sposarsi, pur essendo innamorato di Maya (Nina Bloomgarden). Il gruppo è composto da Shelby (Brittany O’Grady) che è stanca di essere respinta dal suo fidanzato Cyrus (James Morosini), inetto e opportunista; Nikki (Alycia Debnam-Carey) bellissima influencer che cerca in tutti i modi di dimostrare la sua modestia rispetto al ruolo che ricopre socialmente e con la sua bellezza; Brooke (Reina Hardesty) la fattona del gruppo e Denny (Gavin Leatherwood), la testa calda. Un gruppo ben assortito che già nei presupposti appariva nella sua incredibile banalità: personaggi appiattiti su se stessi, che non hanno niente da raccontare né da dimostrare. Tutto cambia quando Ruben dice di aver inviato alla rimpatriata Forbes (David W. Thompson), un ragazzo con cui il gruppo ha perso i contatti dal college perché espulso dopo una lite in cui, per proteggere la sorella Beatrice (Madison Davenport), ha fatto a botte con Denny.
It’s What’s Inside: Forbes, uno dei personaggi più carismatici degli ultimi anni
Forbes è in assoluto il personaggio chiave con cui leggere tutto il film. Peccato solo che nel finale se ne perdano le tracce. Eppure per la maggior parte dei minuti, grazie alla performance del bravissimo attore che lo interpreta, Forbes risucchia l’attenzione. Non lo fa con la bellezza. Quello di Forbes è tutto carisma che impregna le stanza, arrivando fino a noi. Ovviamente Forbes è un ragazzo strano, descritto in maniera furba per accentuarne la stranezza. La regia di Jardin ricorda l’hyperpop di Sam Levinson (tra gli altri Assassination Nation, Euphoria) e un tocco di Harmony Korine, mi scuseranno i cinefili di tutto il mondo. Proprio la regia riesce a sopperire a una narrazione tanto lineare quanto banale in cui, grazie al gioco portato d Forbes, i ragazzi potranno mettersi nei panni degli altri e iniziare un gioco per indovinare chi è realmente chi. Non si possono fare spoiler con It’s What’s Inside perché se ne perderebbe il senso, ma è un film da guardare con carta e penna alla mano per non farsi sfuggire nessun indizio.
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Cosa ci dice di nuovo It’s What’s Inside?
È un cinema post punk, che nella sua comunicazione didascalica e semplicistica trova un paradigma di comunicazione molto complesso. È un gioco più che un film ed è anche – forse – pure per questo che adesso parliamo di un nuovo tipo di cinema, quello che fa dell’interattività la sua complessità superando filoni cinematografici come neorealismo, il moderno e il post moderno. Un cinema videogioco, in cui l’unico modo di trovarci un senso è quello di viverselo come un’esperienza, per capirne la cura al dettaglio e la complessità della scrittura che, seppur spacciata per semplicistica, funziona a più livelli. Il marchio It’s What’s Inside sarebbe (o sarà) qualcosa per Netflix da spremere fino all’osso, un franchise potenzialmente fatto da infiniti sequel che permette infinite entrate (al pari di produzioni come Squid Games, Enola Holmes, The Platform e così via) proprio per la sua capacità di comunicare in modo facile, veloce e divertente alla massa di spettatori.
It’s What’s Inside quando il vuoto del contemporaneo diventa punk
Ma It’s What’s Inside non è solo questo. É anche un esercizio di scrittura difficilissimo, che rompe i paradigmi della logica comunicativa e li ricostruisce per renderli chiari ma non troppo, abbastanza per giocare a un gioco in cui si può vincere oppure ricominciare, ma mai perdere. Perché alla fine i fili della logica comunicativa adottata da Jardin finiscono per combaciare come una tela di ragno. Un lavoro, quindi, mastodontico per un film semplicistico eppure geniale allo stesso tempo, proprio per la sua vuotezza; e che trova la sua migliore qualità nel lavoro difficilissimo che ha creato questa struttura. È un film post punk se il punk fosse nato negli anni Duemila: quindi forse siamo nel post-post punk perché nel suo crearsi si svuota, per farsi vedere si lascia mangiare, divorare, consumare e alla fine quello che resta è il baluginio di una scrittura che esiste (o è esistita) ma che il tritacarne contemporaneo ha soppresso e snaturato. Fino a renderlo qualcosa che non era ma che pur qualcuno è in grado di vedere con tristezza: un film che ci dice molto sul contemporaneo e la voglia di distruggerlo come lui ha distrutto noi, a cui non è rimasto più niente da raccontare.