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Duong Dieu Linh, regista di ‘Don’t Cry, Butterfly’, mette a nudo il suo film
Duong Dieu Linh ci racconta ‘Don’t Cry, Butterfly’, tra mitologia e creature horror, In una lunga e appassionante chiacchierata
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2 mesi agoon
Vincitrice di ben tre riconoscimenti alla Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia 2024 e rappresentante di una New Wave Vietnamita, Duong Dieu Linh è una vera forza creativa che arriva dal Sud-Est asiatico. Nata ad Hanoi nel 1990 ma adottata da Singapore, la regista ha una grande passione per il mezzo video e per le storie che da qui transitano, soprattutto se sono storie di donne. Ha realizzato con successo tre cortometraggi prima di esordire con questo suo lungometraggio.
In occasione della presentazione del suo film di debutto al Busan International Film Festival, abbiamo incontrato Duong Dieu Linh per mettere a nudo la sua opera e lasciarci affascinare da una certa mitologia animista del Sud-Est Asiatico, che lei ha reso cinema di genere. In una lunga e appassionante chiacchierata.
Leggi la recensione di Don’t cry, Butterfly di Duong Dieu Linh
Da dove viene l’idea di Don’t cry, Butterfly e come hai scelto di mescolare i diversi generi?
Sono un regista vietnamita ma vivo a Singapore. Quando avevo poco più di vent’anni, non sapevo cosa fare o dove andare come regista, così decisi di tornare in Vietnam e realizzare un cortometraggio su una madre e una figlia. La madre cercava di eseguire un rituale voodoo per curare la figlia dalla sua malattia, ovvero avere una relazione con un uomo sposato. Il maestro voodoo diceva che la figlia era posseduta da un fantasma e che, curando quel fantasma, la figlia avrebbe fatto scelte più sagge. Ho amato molto quel film.
Continuavo a volerci tornare, aggiungere nuovi strati, nuovi materiali, osservazioni sulla vita e cambiamenti nel mio punto di vista riguardo al matrimonio. Così, ad un certo punto nel 2019, ho deciso che ero pronta a trasformare quel film in un lungometraggio e dire tutto ciò che volevo raccontare. Ed è così che è nato Don’t Cry Butterfly.
Mescolare generi non è stata una decisione consapevole. A quel tempo mi piacevano molto i lavori di Hong Sang-soo e Kim Ki-duk, soprattutto per il loro umorismo satirico. Trovo che, quando si inseriscono elementi comici accanto a una storia triste e tragica, questi ne amplifichino l’aspetto drammatico.
Il viaggio emotivo richiedeva una creatura spaventosa a un certo punto, come manifestazione delle emozioni represse e del lato oscuro del personaggio che rifiutava di affrontare. È successo tutto molto naturalmente. E credo che questo abbia a che fare anche con il mio interesse personale per l’horror corporeo.
Guardavo molto il lavoro di David Cronenberg o John Carpenter, e molti dei film giapponesi estremi degli anni ’80 e ’90. Ero come una spugna, osservando e assorbendo tutte queste preferenze e osservazioni sulla vita. E poi li ho mescolati e adattati.
Hai ritratto una presentazione sarcastica ma molto amara della condizione delle donne in Vietnam. Quello che mi ha colpito di più è stata la determinazione di queste donne a rimanere con mariti infedeli che, in realtà, non le rispettano. È davvero così in Vietnam?
Ci sono state molte lezioni che mi sono state insegnate quando ero ragazza. Il tuo dovere nella vita è sapere cucinare, pulire la casa, trovare un marito, fare figli e assicurarti che la tua famiglia sia felice, che tuo marito sia ben nutrito e che tuo figlio riceva una buona educazione: questo sembrava essere lo scopo della mia vita.
Guardando mia madre, le mie zie, le mie sorelle, le amiche di mia madre, vedevo che tutte erano sotto la stessa influenza: cosa doveva essere una donna, come doveva funzionare una famiglia e come mantenere una facciata presentabile per la società. Se non soddisfi questi doveri, hai fallito come donna e non hai adempiuto al tuo dovere verso la tua famiglia e la società.
Ma non si parla mai di come identificare i tuoi sentimenti, di cosa ti renda felice o completa come persona, al di fuori di quella unità familiare che la società ti chiede di costruire. Molte donne cercano di rimanere in matrimoni falliti a causa di questa pressione. Non vogliono fuggirne per vergogna: per la famiglia, per se stesse, per i figli.
Ecco, sono affascinata da questo ciclo senza fine di donne intrappolate nelle aspettative della società, e volevo mostrarlo attraverso due generazioni. Nel film, la figlia è piena di sogni e pensa di poter vivere una vita migliore di quella della madre, mentre la madre cerca di fuggire dalle proprie emozioni.
Ma alla fine, entrambe fuggono dal problema: la figlia pensa che lasciando il Paese tutto si risolverà, mentre la madre ignora i suoi sentimenti e non affronta le domande che dovrebbe porsi. È interessante vedere come due generazioni di donne si confrontino con la stessa tragedia in modi diversi, ma entrambe siano ancora intrappolate nella loro mente e nelle gabbie che la società ha costruito per loro, inconsapevolmente.
E mi interessava accostare questo con l’amore che le due hanno l’una per l’altra.
Duong Dieu Linh, il tuo film è una coproduzione internazionale ed è stato scelto come case study per essere discusso all’Asian Contents & Film Market. Puoi raccontarci di più su questo percorso?
Tradizionalmente, molti film vietnamiti cercano finanziamenti dall’estero poiché non c’è molto supporto governativo per i film indipendenti. Di solito ci rivolgiamo a paesi come Francia o Germania. Ma nel mio caso è stato diverso. Io e Si En Tan, la co-produttrice, abbiamo deciso di cercare finanziamenti esclusivamente in Asia.
Abbiamo avuto un finanziatore dal Regno Unito e la Vision Sud-est dalla Svizzera durante le riprese, ma il resto dei finanziamenti proveniva dall’Asia. Trovo questo incoraggiante perché stiamo cercando di creare una comunità nel Sud-est asiatico che possa supportarsi al suo interno.
È stato gratificante lavorare con collaboratori della regione perché ci capiamo subito. Condividiamo retroscena sociali, mitologie e…strane creature. Questo ci ha permesso di connetterci immediatamente, senza dover spiegare tutto in dettaglio come avrei dovuto fare con qualcuno di un background culturale completamente diverso.
Dato che hai menzionato superstizione e mitologia, ti chiedo se credi davvero in questo mondo magico.
Il Vietnam è un paese altamente superstizioso. Anche solo per quanto riguarda il culto, abbiamo, come dire, tre diversi sistemi di adorazione. Adoriamo gli dèi del cielo, di tutte le creature, degli alberi, dei fiumi e delle montagne. Ovunque c’è un dio che risiede. E dobbiamo anche venerare i nostri antenati, coloro che sono passati oltre, e chiediamo la loro benedizione. Crediamo che i loro spiriti siano con noi. Addirittura, quando ero bambina, mia madre andò da una veggente e la veggente disse che uno dei nostri antenati mi stava seguendo mi proteggeva. Poi ci sono altri culti più strutturati, come il buddhismo, che è la religione più popolare in Vietnam. Insomma, è un paese molto spirituale.
Per quanto si dica che in un paese comunista non ci sono fantasmi, il genere più popolare in Vietnam è l’horror, quindi puoi immaginare. E sì dunque, credo nell’esistenza di un regno spirituale, di un altro o di molti altri regni che esistono insieme al nostro, e li rispetto. Credo che siano molto connessi. Non è importante se siamo in grado di vederlo o no, l’importante è riconoscere e essere consapevoli che è lì.
Hai affrontato difficoltà nel rappresentare alcuni dei temi che hai scelto di ritrarre nel tuo film? Hai riscontrato restrizioni o tensioni durante la scrittura della sceneggiatura, o ora che il film sta per essere distribuito in Vietnam?
Questa è una domanda molto delicata. È una domanda delicata in un momento delicato, perché sai cosa è successo di recente in Vietnam [Duong Dieu Linh si riferisce al caso del film Viet and Nam, interdetto alle sale vietnamite], ma devo dire che siamo stati fortunati, perché non abbiamo avuto restrizioni. Penso che il film sia molto orientato alla famiglia, è una storia che racconta la vita quotidiana; quindi, mi è stata data libertà di esprimere la mia voce.
Per la distribuzione in Vietnam, abbiamo dovuto rimuovere alcune scene sensibili a causa del linguaggio. E i dettagli sull’incantesimo d’amore, perché in Vietnam stanno cercando di non incentivare pratiche superstiziose che potrebbero risultare ingannevoli. Ma ho parlato con il dipartimento del cinema e ho detto chiaramente che, ovviamente, nel contesto della storia stavamo trasmettendo il messaggio opposto: non è così che si risolvono i problemi di coppia. Smettete di scaricare la responsabilità a qualche sorta di forza superiore.
Per quanto riguarda la distribuzione nazionale, abbiamo firmato con CJ Vietnam per l’inizio del prossimo anno.
Leggi la recensione di Don’t cry, Butterfly di Duong Dieu Linh
Il film accenna molto sottilmente alla scomparsa della città. Puoi spiegare meglio questo aspetto?
Sì, c’era un dettaglio, molto sottile e nascosto nel film. Si intravede tra le scarpe da ginnastica dei due amici che vanno sul tetto. Quel luogo è quasi come il loro piccolo angolo verde, utopico, nel paesaggio di un paese in via di sviluppo. Intorno ci sono molti lavori in corso. Nel design del suono, abbiamo inserito appositamente tutti quei rumori caotici e di costruzione per mostrare come il paese stia cambiando.
I tempi sono cambiati, certo, ma la nostra mentalità? Per quanto la società si stia evolvendo, la società e il nostro pensiero sono in qualche modo ancora ancorati al passato. È questo che ho cercato di esplorare nel film.
C’è anche qualcos’altro di molto sottile in quella scena. Hai fatto riferimento al ragazzo che si toglie la vita. Volevo capire meglio la situazione in Vietnam. Il suicidio è un problema reale in Vietnam, o è qualcosa che hai voluto solo per quel personaggio in quel momento?
Il finale del ragazzo nel film è proprio come hai detto, molto sottile. Non suggerisco una fine chiara per lui. Penso che non fosse necessario: mentre vaga nel film e nella vita, si sente perso e bloccato nel passato. E ora che la sua migliore amica sta lasciando il paese, non importa più se lui è ancora lì fisicamente o meno, perché sappiamo, come pubblico, che il suo destino è di rimanere bloccato lì per sempre.
Come hai scelto i quattro attori? Come li hai trovati? Non tutti sono professionisti…
Beh, il casting è stato interessante perché nessuno dei quattro attori principali è stato scelto nello stesso modo.
Innanzitutto, avevo già lavorato con l’attrice protagonista, Lê Tú Oanh, che interpreta la madre Tam, nel mio cortometraggio Sweet, Salty, e amo davvero l’energia che porta sullo schermo. In realtà, è un’attrice teatrale, ma sa ridurre l’emozione e l’espressione per il video molto bene; ed è molto consapevole delle dimensioni delle inquadrature e di tutto il resto. Questo è qualcosa che trovo molto ammirevole, quindi l’ho invitata a partecipare a questo progetto. Mentre scrivevo la sceneggiatura, pensavo proprio a lei.
Il personaggio del marito, Tang, è stato molto difficile da trovare. Sapevo di volere un uomo tra i 40 e i 50 anni, molto bello, qualcuno che potesse sembrare attraente da giovane; qualcuno che avesse effettivamente questo tipo di vita introversa, e che avesse vissuto facendo tutto secondo le aspettative della società.
Una specie di spaccato dell’uomo in Vietnam, dove abbiamo molte figure paterne assenti, perché questo è tutto ciò che sanno fare. Non è colpa loro; è la società che dice loro come dovrebbero comportarsi come uomini.
Quindi avevo bisogno di un personaggio che fosse bello, moderato e raccolto, e che avesse anche questo tipo di aria sognante ma smarrita. Ho fatto molti casting. E sono stata felice di aver trovato Lê Vu Long.
Per i due attori giovani, ho organizzato un casting aperto, quindi penso di aver provinato circa 100 o più candidati. Abbiamo fatto due o tre turni di audizioni. Ed è buffo perché Nguyen Nam Linh, l’attrice che interpretava la figlia Ha, non è un’attrice professionista, ma viene dall’ambiente produttivo.
Mi avevano detto che aveva un viso interessante. Così le ho chiesto di venire a provare, e nel momento in cui è entrata nella stanza, ho sentito cambiare l’atmosfera. Ho guardato la sua performance, puramente istintiva, perché non ha alcuna formazione in recitazione, ma non riuscivo a togliermela dalla testa! Me ne sono innamorata. E sono ancora innamorata di lei, anche ora che il film è finito, siamo diventate amiche e ogni volta che entra nella stanza, questa si accende di energia e fa sorridere tutti.
Dopodiché, l’attore che interpreta il migliore amico Trong, Bùi Thac Phong, è uno studente all’Accademia di Cinema e Teatro di Hanoi, e anche lui ha partecipato al casting aperto. E quando è entrato, era diverso. Era quasi come se non stesse nemmeno recitando.
Era molto rilassato e interpretava se stesso, e ha questa sensazione di goffaggine, che è molto diversa da altri attori che cercano sempre di essere cool e belli, di avere un aspetto curato e comportarsi in modo corretto. Lui è solo naturalmente impacciato, e mi piaceva. Allora gli ho chiesto di farsi crescere i capelli.
E due mesi dopo, abbiamo fatto il secondo turno di audizioni, e i suoi capelli erano davvero lunghi. Ho apprezzato la sua dedizione. Quando poi l’ho messo accanto a Nam Linh, hanno subito legato.
Ma è divertente perché Phong…è il figlio di Oanh, l’attrice protagonista. Ma li ho scelti separatamente e ho dovuto mantenere il segreto, perché se avesse saputo che era stata scelta sua madre, non sarebbe stato così felice di partecipare.
La direzione alla fotografia in Don’t Cry, Butterfly è un altro aspetto a cui hai dedicato molta cura. Come volevi che apparisse il tuo film e come hai lavorato con il tuo direttore della fotografia, Ngô Minh Nghia?
Per me, l’aspetto visivo del film nasce sempre sia dal lavoro del direttore alla fotografia e dello scenografo. Mi assicuro che lavorino a stretto contatto con me, come in un triangolo. Un triangolo di creatività, non di tristezza! [n.d.r.: strizza l’occhio al film Triangle of Sadness]
Conosciamo a fondo le storie e i personaggi, in modo da poter tradurre tutto questo nel linguaggio visivo. E ci sediamo spesso a parlare dei personaggi e le emozioni che voglio rappresentare in ogni scena, la motivazione che sta dietro. In questo modo, scegliamo i colori, i movimenti della camera, e la posizione degli angoli per cercare davvero di raccontare la storia.
Ho cercato sin da subito di soffocare i personaggi. Volevo che il luogo, in particolare la loro casa, sembrasse come se fossero morti. Pham Phong Lan, lo scenografo, ha riempito la casa con molti mobili pesanti di legno scuro. Questo rendeva l’intero setting cupo e opprimente. Anche il colore della carta da parati ha dei motivi, ma si tratta di un disegno molto disorientante. Poi ho chiesto a Ngô Minh Nghia, il direttore della fotografia, di inquadrare il personaggio in modo che sembrasse sempre intrappolato, sia dai mobili che dalle persone intorno a lui, da non avere lo spazio per respirare. E penso che abbia funzionato bene.
In aggiunta, sono convinta che un altro componente che contribuisce alla resa visiva del film è il design del suono. Penso che il suono sia molto sottovalutato. Quando ho parlato con Lim Ting Li, la tecnica del suono, le ho spiegato che volevo che la casa respirasse un’aria molto stagnante e umida.
Dentro la casa, volevo sentire come se tutta l’energia venisse prosciugata. E allo stesso tempo, che i rumori provenienti dall’esterno fossero di continuo disturbo. È una sorta di metafora del mondo interiore del personaggio e della società esterna che mette tutte queste pressioni sulla sua vita.
Penso che tutti questi elementi abbiano funzionato davvero bene insieme. E sono molto orgogliosa di aver avuto un buon gruppo creativo, che mi ha dato molti spunti su come esprimere al meglio l’emozione che volevo trasmettere con il film.
Il film include anche una creatura magica che si manifesta gradualmente, e poi fa la sua comparsa sul finire del film. Da dove viene l’idea di questa creatura e come l’hai resa?
L’ispirazione della creatura arriva in realtà dalla mitologia filippina. Si chiama Aswang. È sostanzialmente un mostro che si appende al soffitto o al tetto di una casa, e allungando la lingua arrivare a succhiare il feto dal grembo di una donna incinta. Mi affascinava l’immagine della lingua che si allunga dal soffitto. E uno dei miei mentori nel programma di sceneggiatura mi ha fatto notare come assomigliasse molto all’atto della penetrazione, quando un uomo è sopra una donna.
Ed è interessante perché entrambe le cose hanno a che fare con l’energia della donna che viene prosciugata. O è la creatura che succhia il bambino o è il rapporto sessuale. È un’attività di scambio di energie. Questo mostro nasce da tutte le emozioni represse e dal lato oscuro del personaggio principale. Lei l’ha creata e nella scena si manifesta e succhia via tutta la sua energia.
Il processo di creazione è stato molto interessante perché tutti mi dicevano: facciamo in CG. E io dicevo: no, voglio effetti speciali tradizionali. Sono vecchia scuola. Se lo faceva John Carpenter, possiamo farlo anche noi. Così abbiamo coinvolto un artista degli effetti speciali filippino, Jefferson Cabral.
Non volevo che fosse troppo splatter o spaventosa. Ma doveva anche richiamare questo atto della penetrazione, anche nel modo in cui pulsava e nelle vene che si vedevano intorno. Quindi abbiamo costruito una struttura che abbiamo rivestito con queste vene, ricoperte di un liquido scuro e vischioso. Il liquido non è nero puro perché non volevo fare qualcosa come Venom: è un nero iridescente. Quasi come la pelle di un serpente sotto il sole, quando vedi i colori che ne emergono.
Volevo che fosse inquietante, ma anche bella allo stesso tempo. Se guardi il film attentamente, noterai che nella stanza di Ha c’è sempre un po’ di arcobaleno: questa creatura ha un po’ di quell’effetto iridescente arcobaleno che ritroviamo nella stanza.
E così è nato il tutto.
—
Sempre sorridente e piena di energie, Duong Dieu Linh si congeda con una stretta di mano e un sorriso che riempie la stanza di nuova energia. In perfetta sintonia con quel personaggio un po’ sognatrice un po’ disillusa che ha disegnato nella sua Vietnam ironica e horror allo stesso tempo.