Farming the Revolution di Nishtha Jain e Akash Basumatari è un documentario prodotto da Raintree Films, Little Big Story e Piraya Film, già vincitore dell’ultima edizione di Hot Docs e presentato in anteprima a Ferrara nel ciclo Mondovisioni del Festival Internazionale il 4 ottobre.
Sulla scia dell’eredità pacifista indiana, una nuova protesta raggiunge i cuori e rivitalizza: un film pieno di speranza ed energia, che pone l’accento sulla condivisione e la solidarietà come armi imbattibili contro l’egoismo di pochi.
Farming the Revolution di Nishtha Jain e Akash Basumatari, la trama
Nel novembre 2020, un movimento di contadini del Punjab si allarga in protesta e coinvolge, tra gli altri, anche Gurbaz Sangha, un giovane agricoltore che in principio non sembrava interessato alla rimostranza. Ma quando si rende conto della forza e dell’estensione che il movimento ha raggiunto, anche lui segue la folla di trattori in marcia fino alle porte di Delhi.
Lì, stabiliscono un accampamento che rimane per oltre un anno, forte nelle intenzioni e motivato ad ottenere la modifica della Farm Law proposta da Nerendra Modi.
Il Primo Ministro indiano, dopo aver raccolto i voti di tanti di quegli stessi contadini promettendo il prezzo minimo sui prodotti della terra, opera una inversione di rotta in favore delle corporation, scatenando il malcontento di circa la metà della forza-lavoro indiana.
La protesta mostra la sua forza peculiare, la resilienza e l’unità di spirito, nonché una nutrita presenza femminile tra le fila dei dimostranti, rappresentando, al di là dei valori politici, un esempio di società e contestazione pro-diritti umani.
Farming the Revolution – Gurbaz Sangha
L’estensione del film
Fiumi di piedi in cammino, la maggior parte delle teste fasciate ma tutte egualmente motivate a determinate. I colori riempiono continuamente lo schermo, e quindi gli occhi di chi osserva. La protesta pacifica è totalizzante anche come esperienza visiva: questo è il ricordo più vivido che Farming the Revolution di Nishtha Jain e Akash Basumatari ci lascia, insieme ad una fiduciosa e rivitalizzante carica umana, dovuta ai valori stessi che la protesta, di cui siamo testimoni immersi, veicola.
I registi hanno operato un montaggio molto oculato, fatto di un lavoro di selezione di contenuti straordinario: è solo vagamente immaginabile tutto quello che può essere accaduto in quei tredici mesi di conflitti pacifici e violenti, di scontri e solidarietà, di accampamenti e di marce. Tredici mesi in cui entrambi i registi erano presenti, sul campo, a documentare l’evolversi di un movimento di cui nessuno aveva fatto previsioni.
Delle stesse vittime registrate, i registi raccontano, si è deciso infine di rappresentarne la memoria e la celebrazione, senza andare a turbare le famiglie già profondamente ferite. Di quelle oltre 500.000 persone coinvolte, di quelle 702 vittime, rimane l’impronta dei successi ottenuti e dei valori che hanno dato vita ad un tale fenomeno: l’unità e la solidarietà gli uni con gli altri;
We live here just like brothers and sisters
la condivisone della missione senza distinzione di ceto o genere;
These struggles are incomplete without women
e soprattutto il comune obiettivo di combattere non per se stessi, ma per consegnare un presente ed un futuro migliore alle generazioni giovani.
If we can endure the dark nights here, we can give light to the future.
Il ruolo delle donne
Le donne sono state un elemento decisivo nell’evoluzione della protesta dei lavoratori indiani. Le donne erano presenti al di là di ogni individualismo, e la capacità che hanno mostrato di proiettarsi al futuro (e alle future generazioni) spicca dalle loro parole e conquista un posto speciale anche nel documentario di Jain e Basumatari.
Malgrado i problemi, i limiti fisici, le donne erano là, per i loro figli e i figli dei loro figli. E questa presenza femminile ha regalato alla protesta ordine, organizzazione, progettualità e lungimiranza, e una distintiva solidarietà che si è dimostrata poi essere la forza dirompente del movimento nella sua interezza.
Per un film nato senza budget, dall’urgenza di documentare istintivamente un movimento cresciuto dalle campagne, di cui si leggeva la potenzialità, Farming the Revolution si è evoluto in un’opera d’arte umana potentissima, che lascia un senso di pienezza e rispetto come solo pochi film sanno trasmettere.
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