In sala dal 10 ottobre con Academy Two, dall’ultimo Festival di Cannes, La storia di Souleymane, scritto e diretto da Boris Lojkine ha ricevuto il premio della Giuria e per il Migliore attore nella sezione Un Certain Regard.
Souleymane è un ragazzo della Guinea, migrante senza documenti, rider che pedala determinato e consegna cibo a domicilio mentre studia per superare l’esame che gli permetterà di ottenere lo status di rifugiato. 48 ore di vita, tra clienti ingrati, sfruttatori che chiedono il pizzo, contrattempi ed inseguimenti di autobus che non lo aspettano, in attesa di quell’appuntamento presso l’Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFPRA) per la richiesta di asilo. (Fonte Academy Two)
Per approfondire meglio il film abbiamo fatto alcune domande al regista Boris Lojkine.
– Le immagini sono gentilmente concesse da ufficio stampa Academy Two –
La storia di Souleymaine di Boris Lojkine: documentario o thriller?
Fin da subito sembra di essere davanti a un documentario che però poi a un certo punto si trasforma in un thriller. In realtà non è niente di tutto questo ma al tempo stesso è anche tutto questo.
Sì, possiamo dire così. Io direi che è un film che è ancora più complicato, ma in ogni caso è al 100% un film sociale che racconta una realtà e, allo stesso tempo, è al 100% un thriller.
Non è 50-50, è 100% l’uno e 100% l’altro. È vero che all’inizio di questa storia, l’intento di questo film è documentario perché volevo raccontare cos’è essere un rider a Parigi, ma sapevo anche che volevo raccontarlo con un ritmo molto veloce e con un modo di scrittura proprio dei thriller. Per me è stato molto chiaro che il film sarebbe stato entrambe le cose.
Poi la questione del documentario è un po’ più complessa, perché mi dicono spesso che da molti punti di vista il film sembra un film documentario. Poi c’è il fatto che abbiamo attori non professionisti, abbiamo la sensazione di essere davvero nella vita vera della città, perché c’è un sentimento molto naturale. Ma al tempo stesso non è neanche un documentario, nel senso che non c’è nessuna scena improvvisata, tutte le scene sono scritte e organizzate, e tutte le persone che sono nel film sono persone che ho impegnato a far parte del film.
Il protagonista
A tal proposito volevo chiederti qualcosa sul protagonista. Abou Sangare non è un attore e soprattutto non è neanche un rider. Nonostante questo è riuscito nell’intento di portare sullo schermo un personaggio vero, autentico e umano. Ha trasmesso tutte le emozioni e, in qualche modo, incarna la mescolanza di cui parlavamo prima tra documentario e thriller.
Per me era molto chiaro il lavoro fatto durante il casting, che, nello specifico, si chiama casting non professionale e che vuol dire uscire in strada e cercare persone. In particolare per quanto riguarda questo film ho cercato la perla rara. Non volevo prendere nessuno all’inizio, ho cercato qualcuno con un grande carisma, con qualcosa di potente.
Abou Sangare non è un rider e non era un rider prima del film, non ha mai chiesto l’asilo, non ha nemmeno mai chiesto l’asilo, come il personaggio di Souleyman. La vita di Sangare non è la vita di Souleyman. In questo senso non è un documentario; ho preso qualcuno che è molto vicino al personaggio, ma sotto altri punti di vista. Entrambi sono guineani, sono arrivati in Francia relativamente di recente e in età adulta. In comune con lui c’è il fatto che anche Abou sa cosa significa dover aspettare le risposte dell’amministrazione e giocare la vita in questi intervalli. Sapendo tutto questo e avendo vissuto tutto questo, ha potuto trasmetterlo nel suo ruolo. Poi è molto importante sottolineare che durante tutta la preparazione del film, tra il momento in cui ho fatto il casting e il momento in cui abbiamo iniziato le riprese avevamo molti mesi a disposizione nei quali abbiamo fatto molte prove.
Queste prove hanno avuto un doppio obiettivo. Inizialmente per aiutare gli attori a entrare nella parte. Poi anche per me, perché durante tutto questo tempo provo con loro tutte le scene che ho scritto e trovo con loro la maniera in cui queste scene funzioneranno sia in generale sia per loro.
È un momento in cui adatto il mio scritto a loro e a ciò che sono, al loro modo di parlare, ovviamente, ma anche al loro modo di fare, di sentire, di comportarsi l’uno con l’altro. Per questo sono interessato a prendere attori non professionisti, perché quando li prendiamo hanno qualcosa di prezioso, hanno una ricchezza: hanno vissuto cose che sono spesso vicine a ciò che raccontiamo nel film, conoscono il loro ambiente meglio di come lo conosco io e questo vuol dire che io ho molto da imparare.
Ritmo e tempo nel film di Boris Lojkine
Poi c’è anche la questione tempo e frenesia. A colpire molto è la maniera in cui hai filmato il protagonista in bicicletta e le macchine in strada che danno origine a un grande caos. Quindi queste prove di cui parli sono state utili anche in questo senso?
No, queste prove sono più che altro per le scene di gioco. Per quello che dici, cioè per filmare Parigi e la strada, però, è stato importante avere chiaro in testa il fatto che non avremmo mai stoppato la vita della città. Spesso quando fai un film blocchi la strada, la circolazione, ma una volta che hai bloccato la strada e la circolazione non c’è più vita. Quindi ci saranno i due, tre, quattro personaggi della tua storia, ma non rimarrà la vera vita della città.
Se, invece, vuoi avere davvero questa energia della città e questo caos della città non devi stoppare e bloccare nulla. Bisogna filmare inserendo il dispositivo di finzione nella vita della città. È per questo che non fermiamo mai la circolazione.
La sola scena per la quale abbiamo fermato la circolazione è quella dell’incidente più che altro per ragioni di sicurezza. In tutte le altre scene abbiamo lasciato la circolazione e le persone che passano. Inoltre ho scelto di girare le mie scene nei luoghi peggiori di Parigi, nel senso di luoghi dove c’è più gente, dove c’è più caos. Perché più c’è caos, più c’è vita e più c’è vita, più c’è cinema.
Rimanendo sul discorso del tempo e del ritmo e collegandomi a quello che hai detto volevo sottolineare ancora una volta il fatto che il film è concitato e che, seguendo Souleymane in bicicletta costantemente, siamo, in qualche modo, costretti a correre insieme a lui. E poi la storia si sviluppa in due giorni, quindi tutto è ancora più rapido.
La velocità nel film è qualcosa a cui si arriva in tre passaggi: la scrittura, il girato, il montaggio. All’inizio della scrittura questa velocità è determinata dal fatto che io scelgo di fare un film concentrato su 48 ore, quindi sarà un film diverso dal solito. Scegliere di fare un film in 48 ore è come importare in un film sociale i codici di scrittura che appartengono al thriller. C’è una scelta di scrittura molto netta.
Poi c’è un’ulteriore scelta nel girato: abbiamo avuto una tendenza ad accelerare tutte le azioni. Per esempio, si vede nelle scene di rivolta nelle quali volevamo che Souleymane agisse più velocemente del solito. E ovviamente è qualcosa che abbiamo accentuato molto nel montaggio arrivando a inserire praticamente solo frammenti estremamente veloci uno di seguito all’altro. Abbiamo dovuto operare molte ellissi in questo senso nel montaggio per accelerare l’azione.
Musica e scena finale
Volevo tornare sul discorso del caos e della confusione come sinonimo di vita. Hai detto che avete girato in luoghi specifici per percepire ancora di più la vita frenetica e la vita in generale. E sicuramente questo ha contribuito a fare da colonna sonora al film perché c’è un aspetto molto interessante che è assente ne La storia di Souleymane: la musica. Nonostante non ci sia è come se in alcuni momenti, soprattutto quelli più concitati, ci fosse comunque.
Sì, la materia sonora del film e in particolare il suono della città, delle auto, della metro, della folla, i clacson, le sirene, le ambulanze che passano, tutti questi suoni della città, questa materia sonora, si può trattare come se fosse musica. Si può trattare come una materia musicale e sonora per dare sensazioni agli spettatori. E non è soltanto per illustrare, ma per dare sensazioni forti agli spettatori. Per questo motivo abbiamo spostato molto lontano il mix, che vuol dire che talvolta cambia l’intensità. Quando non è forte crea tensione nello spettatore, un’attenzione e una concentrazione maggiori. Al contrario, quando arriva un suono molto forte, esso provoca sensazioni forti. C’è un’idea che il film deve essere molto immersivo e che il suono partecipi enormemente a questo.
Il suono diventa praticamente la musica del film. Anche nella scena finale, nonostante l’intensità, la musica è assente. Senza fare spoiler cosa puoi dire sull’ultima scena del film?
Sicuramente c’è anche un’estetica diversa in quest’ultima scena rispetto al resto del film. In quella scena si filma in campo contro campo, con una camera forse più stabile rispetto a quella usata in precedenza. Probabilmente anche per questo molta dell’emozione che lo spettatore sente nella scena finale viene dal fatto che si è corso (sia noi che Souleymane) per più di un’ora. Questo grande contrasto nel film provoca una sensazione molto particolare, un sentimento particolare per lo spettatore.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli