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Approfondimenti

Pupi Avati: lo sguardo provinciale tra dramma, commedia e orrore

In una carriera lunga oltre cinquant'anni, Pupi Avati ha raccontato ricordi personali e memoria storica negli ambienti della provincia, soprattutto quelli dell'amata Bologna. Esploriamo la sua vasta carriera, in cui il cineasta ha giocato con i generi, passando dall'horror al drammatico e alla commedia con fine disinvoltura.

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Dopo più di cinquant’anni di onorata carriera, Pupi Avati viene finalmente riconosciuto come quel grande autore che è sempre stato. Non che in questo mezzo secolo siano mancati i successi, i premi e gli apprezzamenti, sia da parte del pubblico che della critica. Anzi, il contrario. Ma i suoi meriti e la sua figura sono spesso passati in sordina, soprattutto considerando che stiamo parlando di uno dei pilastri del panorama cinematografico italiano dagli anni ’70 ad oggi. Ma gli ultimi anni rappresentano un periodo che potremmo definire di riscoperta delle opere del regista bolognese. E il 2024 è un ulteriore tassello parlando di traguardi raggiunti. Il suo nuovo film, l’horror gotico L’orto americano, è stato il film di chiusura dell’81ᵃ edizione del Festival del Cinema di Venezia. A Lucca, in occasione del Lucca Film Festival, gli viene invece consegnato il Premio alla Carriera. Opportunità perfetta, quest’ultima, per celebrare la grande carriera di Avati.

Con una filmografia così ampia come quella di Pupi Avati può risultare difficile, così di primo acchito, districarsi nelle opere del cineasta. Cosa che risulta ancora più difficile se si considera come Avati sia riuscito a muoversi con fine disinvoltura in territori diversi fra loro, dall’horror al dramma, dalla commedia al film storico. Eppure, in quasi tutti i suoi film, c’è sempre lei: la sua amata Bologna. Bologna intesa tanto come città quanto come dimensione provinciale. È proprio questa provincia dell’Emilia-Romagna a diventare il vero focus del regista. Una provincia che diventa il luogo dove evocare i ricordi personali e la memoria storica. Ma la provincia sa nascondere anche un lato oscuro, dove personaggi grotteschi e situazione bizzarre la fanno da padrona. Con uno sguardo unico, talvolta inusuale, l’occhio di Pupi Avati ha sempre puntato lì: sugli aspetti più peculiari di quella provincia, a lui sempre tanto cara.

Gli esordi e le collaborazioni

La carriera cinematografica di Pupi Avati inizia nel 1968 con Balsamus, l’uomo di Satana, dando il via a quello che viene definito il periodo grottesco del regista. Già con questo film, Avati comincia a raccogliere a sé un gruppo di attori, che con il passare del tempo diventeranno sempre più suoi feticci, in primis Gianni Cavina, ma anche Giulio Pizzirani e Bob Tonelli. Sono attori che per fisicità, personalità e stile recitativo, ben si sposano con lo stile grottesco del giovane regista. Infatti, torneranno anche in Thomas e gli indemoniati del 1970 e in La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone del 1975, che vede anche la partecipazione di Ugo Tognazzi e di Paolo Villaggio. Sono film difficilmente incastrabili nei confini di un genere preciso, valicando infatti nei territori della commedia e dell’horror con un forte spirito grottesco. Sono inoltre pellicole fortemente satiriche sui costumi dell’epoca e sulla religione, da cui si trae anche l’impronta simbolica.

In quegli anni Pupi Avati comincia a collaborare anche ad alcune sceneggiature di altri registi. Nel 1975 lavora a Il cav. Costante Nicosia demoniaco ovvero: Dracula in Brianza di Lucio Fulci, uno dei volti più rappresentativi del cinema di genere italiano, insieme allo stesso Fulci, a Bruno Corbucci e a Mario Amendola. Sempre nel 1975 Avati collabora, non accreditato, alla stesura del copione dell’ultimo grande capolavoro di Pier Paolo Pasolini, ovvero Salò o le 120 giornate di Sodoma. Cinque anni dopo, Avati avrebbe poi scritto la sceneggiatura di Macabro, esordio alla regia di Lamberto Bava, figlio del grande maestro dell’horror gotico Mario Bava. Il film vede anche la collaborazione di Antonio Avati, fratello di Pupi, che è sempre stato a fianco al fratello con i suoi lavori nel ruolo di sceneggiatore e/o produttore.

Balsamus, l’uomo di Satana

La casa dalle finestre che ridono: il primo grande successo

Nel 1976 esce nei cinema La casa dalle finestre che ridono, un film destinato a diventare un oggetto di culto per gli amanti dell’horror italiano. Film scritto a otto mani dai fratelli Avati, dall’attore Gianni Cavina, presente all’interno del film, e da Maurizio Costanzo, che sarebbe ritornato anche per gli altri progetti horror del regista. Basandosi su un racconto della propria infanzia, Avati sceglie di ambientare il film in un piccolo paesino della bassa padana. Scelta di location che si rivela perfetta. La calma bucolica e l’ozio della campagna lasciano il posto al mistero e all’ambiguità di luoghi macabri e di personaggi schivi e diffidenti.

È uno sguardo alternativo sulla provincia che solo Pupi Avati poteva regalare, e che di certo non risparmia certi aspetti tipici della vita provinciale dell’epoca. Il senso di campanilismo della gente del posto respinge ciò che è estraneo alla vita del paesello, esclude chi prova a integrarsi e occulta la verità, anche la più oscura, rendendola una cosa propria, esclusiva del villaggio. È presente anche un bigottismo di matrice cristiana, che spinge a denigrare tutto quello che differisce da usi e costumi locali. La religione è infatti molto presente nel film. Ma è presente nei suoi aspetti più tetri, che si manifestano anche grazie agli inquietanti dipinti del pittore maledetto Buono Legnani. Dipinti che devono molto a quell’immaginario gotico tipico di Mario Bava, che ha influenzato anche lo stile delle scabrose sequenze di tortura e di omicidio. Ma La casa dalle finestre che ridono riesce a creare un forte immaginario personale. Esempio perfetto? Ovviamente la casa del titolo: grottesca, evocativa, terrificante, intrisa di follia.

La casa dalle finestre che ridono

Pupi Avati e i film horror

L’amore per il cinema horror accompagna Pupi Avati anche nel film successivo al suo grande cult, ovvero Tutti defunti… tranne i morti, uscito nel 1977. La pellicola, scritta dallo stesso team di sceneggiatori del film precedente, è un racconto investigativo strutturato come un giallo di Agatha Christie con innesti estetici gotici di chiara matrice baviana. Formula perfetta per un terrificante film dell’orrore? Non proprio, perché al mix va aggiunta anche una massiccia dose di umorismo demenziale. In Tutti defunti… tranne i morti tutto quanto può diventare oggetto di scherno. Persino la morte, anche quando si fa particolarmente scabrosa.

Qualche anno più tardi, nel 1983, Pupi Avati realizza un altro film horror, questa volta nell’accezione più pura del genere. Zeder, scritto dai fratelli Avati e da Costanzo, è un’opera tenebrosa, a partire da una fotografia che predilige il grigio come colore sul quale giocare a livello atmosferico. Un film che svela il proprio mistero con molta calma, costruendo attorno a esso tensione e suspense, toccando inoltre tematiche esistenziali possibilmente inquietanti. Zeder crea inquietudine partendo da una delle paure primordiali più profonde dell’umanità, quella della morte, e ne accentua il terrore abbattendone l’indissolubilità. La morte è davvero irreversibile?

Zeder

Impiegati: lo sfrenato yuppismo anni ‘80

Del 1983 è anche l’acclamato Una gita scolastica, film che segna una svolta nella carriera di Pupi Avati. Oltre a introdurre la tematica, tanto cara al regista, della memoria, che diventerà sempre più preponderante, si segnala anche un cambio di registro. Si passa infatti dallo stile grottesco, in cui vivono l’orrore e l’assurdo, a una corrente di commedia drammatica, che spesso rappresenta uno spaccato sociale. Fra questi, Impiegati, del 1985, una rilettura moderna di Il posto di Ermanno Olmi del 1961, spicca per un racconto senza fronzoli del fenomeno dello yuppismo negli anni ’80.

Ovviamente la location non è più la calma provincia, ma la movimentata città. Una Bologna che si fa teatro di scontri e duelli fra colleghi d’ufficio. Nello yuppismo, infatti, la fa da padrona una cosa sola: la competizione. L’ideale della scalata nel mondo del lavoro diventa l’unico obiettivo di questi impiegati, crudeli e arrivisti, che per giungere alla cima farebbero di tutto. Infatti il campo di battaglia spesso corrisponde al terreno relazionale. Le emozioni sono fragili. I sentimenti vengono infranti. E, fra due di picche e tradimenti, anche l’amore diventa flebile illusione. Ma in Impiegati queste cose passano in secondo piano. Il lavoro è un vortice che ingloba sempre di più questi giovani, plagiando la loro mentalità. Esemplare, in questo caso, è il caso quel collega che rimane in ufficio anche dopo l’orario di chiusura. Gli piace. Una volta non gli piaceva. Ma adesso gli piace. Il lavoro diventa l’unica cosa importante.

Impiegati

Regalo di Natale: il film del consolidamento artistico

L’anno seguente, nel 1986, arriva Regalo di Natale, il capolavoro di Pupi Avati. Per questo film, il regista mette insieme un cast composto da un paio di attori di fiducia e da qualche nuovo volto: Diego Abatantuono, Carlo Delle Piane, Gianni Cavina, Alessandro Haber e George Eastman. Avati in questo film si consolida del tutto come grande regista. Regista talentuoso, in primis, nella direzione degli attori, in quanto capace di elevare le performance di interpreti spesso sottovalutati, in quanto volti di film di genere e di commedie popolari. Ma anche ottimo regista in grado di districarsi senza problemi tra toni e generi diversi.

Regalo di Natale è infatti un fine dramma umano che spesso sfuma nel territorio del thriller, riuscendo a tenere gli spettatori col fiato sul collo per lo svolgimento di questa partita di poker. Avati riesce nell’impresa grazie a un’essenziale ma elegante regia simil teatrale, che ruota attorno al tavolo di gioco. Tutto ruota attorno a quel tavolo. Quel tavolo che diventa punto di ritrovo per vecchi amici. Ma che evoca anche ricordi del passato, anche e soprattutto quelli più spiacevoli. Un tavolo che diventa quindi un campo di battaglia, sul quale lottare duri e rancorosi scontri emotivi. Regalo di Natale è un’amara riflessione sul tempo che passa e sulle cicatrici che esso lascia, discorso poi ampliato nel sequel del 2004, La rivincita di Natale.

Regalo di Natale

Magnificat: la ricerca del divino

Nel 1993 esce Magnificat, una ricostruzione storica ambientata durante la settimana santa di Pasqua del 926. Non è il primo film storico per Pupi Avati, che ha spesso ambientato i suoi film nella prima metà del ‘900 e che si è spinto fino a inizio ‘800 con Le strelle nel fosso del 1979. Ma è il primo film di ambientazione medievale, motivazione esplicata dallo stesso Avati:

Sono risalito a mille anni fa per trovare un’epoca in cui la fede era fondamentale per riempire quel silenzio di Dio che era allora identico a quello che è oggi. […] Era tale e tanta la necessità di trovare un interlocutore che trascendesse le cose e gli uomini per dare un senso ad una vita così grama e bestiale, per trovare un modo di vivere e sperare.

Dopo aver a più riprese mostrato gli aspetti più ambigui e controversi della religione, Pupi Avati decide quindi di raccontare la fede nella sua forma più pura, scegliendo un paesaggio naturale, arcaico ma genuino. Ogni azione e situazione in Magnificat è dettata da un saldo ritualismo. Un funerale, un matrimonio, la vita in convento e persino le esecuzioni dei boia seguono delle precise procedure quasi dogmatiche. Questo perché nella vita medievale tutto quanto è intriso di religione. Tutto quanto può diventare uno strumento utilizzabile per cercare un contatto con il divino, un segnale dell’aldilà, una risposta a domande primordiali di carattere esistenziali, in un’epoca in cui gli interrogativi ancora irrisolti erano molti.

Magnificat

La lunga stagione intimista

Nel 1999 Avati realizza La via degli angeli, una specie di Amarcord per il regista, ambientato nella provincia bolognese degli anni ’20 e ispirato ad alcune memorie della sua famiglia. Con questo film prende il via un filone che i critici definiscono intimista, in cui diventano sempre più preponderanti le tematiche della memoria, della famiglia, delle relazioni sentimentali. In questi anni Pupi Avati predilige una Bologna storica, come nel premiato Il cuore altrove, del 2003, una delicata e malinconica storia d’amore con Neri Marcorè e Vanessa Incontrada ambienta negli anni ’20.

Nel 2005 esce invece l’agrodolce La seconda notte di nozze, ambientato nella provincia pugliese del secondo dopoguerra, con Antonio Albanese, Katia Ricciarelli e Neri Marcorè. Del 2008 è Il papà di Giovanna, con Silvio Orlando e Alba Rohrwacher, film che segue le derive più morbose e ossessive dei rapporti famigliari e dell’attaccamento emotivo nell’Italia fascista. Nel 2009 arriva Gli amici del bar Margherita, film corale ambientato negli anni ’50, in cui Pupi Avati pesca nei ricordi e nelle storie della Bologna che egli stesso aveva vissuto. Il 2010 è il turno di Il figlio più piccolo, con Christian De Sica in una rara interpretazione drammatica, un’amara rappresentazione della crisi dei valori famigliari.

La via degli angeli

Il signor Diavolo: il ritorno all’horror gotico

Pupi Avati dopo Zeder non abbandonò mai veramente il cinema dell’orrore. Nel 1996 realizzò infatti L’arcano incantatore, mentre nel 2007 uscì Il nascondiglio, una produzione italo-statunitense. Ma quando nel 2019 arrivò nelle sale Il signor Diavolo, il film fece tanto scalpore da essere visto come il vero grande ritorno del regista al genere horror. Forse aiuta molto il fatto che il film riprenda molto intuizioni vincenti già utilizzate in La casa dalle finestre che ridono, spostandosi però nella provincia veneziana.

In questi ambienti ritroviamo quella superstizione religiosa e quel bigottismo cristiano che Avati aveva già raccontato in più occasioni. Il discorso però, in questo caso, si rende anche politico. Gli atteggiamenti tipicamente provinciali si ritrovano anche ai piani alti, nel Ministero per il quale lavora il protagonista, nel governo della Democrazia Cristiana, nel Vaticano. La diffidenza e l’intolleranza diventano quindi istituzionalizzati, persino quando si trasformano in sanguinolenta violenza. E tutto questo ci viene raccontato attraverso un ritorno a uno stile gotico di influenza baviana, accentuato da inquadrature atipiche e una fotografia saturata sui toni di grigio. Nonostante presenti alcune ingenuità tipiche dell’horror old school nostrano, Il signor Diavolo rappresenta un caso interessante nel panorama del cinema italiano attuale.

Il signor Diavolo

Dante: ritratto di un grande poeta

Pupi Avati è sempre stato interessato a raccontare persone straordinarie della storia umana. Noi tre del 1984 racconta un viaggio a Bologna del piccolo prodigio Wolfgang Amadeus Mozart. Bix del 1991 ripercorre la vita del fenomenale trombettista jazz Bix Beiderbecke. Ma nel 2022 Avati tenta il colpaccio, e con Dante cerca di raccontare la figura probabilmente più importante e influente della storia e della cultura italiana. Non esce certo una ricostruzione storica precisa, ma poco importa.

La cosa davvero importante in Dante è la riproposizione degli eventi secondo un’ottica di lirismo sentimentale. Quell’ottica che appartiene proprio al grande poeta Dante Alighieri. La poesia di Dante accompagna infatti tutto il lungometraggio, e influenza la visione degli eventi determinanti della vita del maestro: l’amore per Beatrice, la travagliata amicizia con Cavalcanti, la guerra tra guelfi bianchi, guelfi neri e ghibellini. Il tutto viene raccontato dalla prospettiva di Giovanni Boccaccio, grande cultore dell’opera dantesca, qui interpretato da un magistrale Sergio Castellitto.

Dante

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