Swaha (In The Name of Fire), film del regista indiano Abhilash Sharma, presentato allo Shangai International Film Festival, dove ha ottenuto il Goblet come miglior regista nella categoria “Asian Talent”, è in concorso al Lucca Film Festival, dove è stato presentato in anteprima italiana.
Di cosa parla Swaha
Nelle remote periferie del villaggio di Manovra, nello stato rurale del Bihar, nell’India orientale, Rukhiya, Phekan e il loro figlio Karimana vivono, in povertà, ai margini della società, avvolti dalle melodie inquietanti delle preghiere di Kirtan, i canti devozionali della tradizione spirituale indiana. Contro questa povertà, e difficoltà a sfamare il figlio, Phekan viaggia verso la città alla ricerca di un lavoro che possa permettergli di far sopravvivere la propria famiglia, offrendo duri quadri di sfruttamento, inganno e lotta tra poveri, e scontrandosi, tra pochi spiragli di luce, e speranza, con l’indifferenza e l’individualismo, anche di chi, come lui, vive nella fatica. Come Nehura, crematore che si guadagna da vivere recuperando corpi feriti, colpiti e abbandonati tra il disinteresse e la noncuranza di vagabondi e passanti. E a cui Phekan, in un momento di difficoltà, ha portato aiuto, ricevendo in risposta soltanto lo sdegno e il disappunto dell’altra parte.
Mentre, al di là degli alberi, del paesaggio e delle preghiere, in quella capanna isolata da tutto e tutti, Rukhiya, circondata dal silenzio, rotto soltanto dal pianto disperato del figlio e dalle sue preghiere, attende, invano, il ritorno del marito. Invocando al cielo e cercando, con le scarse risorse, di accudire il figlio. Ma da quel cielo, e da quelle preghiere divenute voci, fantasmi e tormenti, che le richiedono un sacrificio, la donna diviene invece ossessionata. E a quella Dea, che la stessa Rukjiya sembra rinnegare e contrastare, sembra invece rivolgersi, sul finale, Nehura, in un percorso di redenzione, e di perdono. Così come di sofferenza, compassione, e illuminazione.
Tra fede e miseria
In Swaha Abhilash Sharma cattura il patrimonio culturale, religioso e tradizionale di una regione e di una terra, che abbraccia nei suoi ampi paesaggi e imponenti alberi in campi larghi e grandi inquadrature, con la freddezza e la crudeltà delle sfide contemporanee. La ricerca incessante, supplicante e disperata di un modo per sopravvivere, e la disillusa realtà di un mondo, di poveri, in cui vige la legge del più forte, tra tutti deboli, da una parte. E, dall’altra, che sembrano fare da contraltare e allo stesso tempo convivere con essa, con quella dimensione dura di povertà, discriminazione e ricerca di dignità, che fotografa e racconta uno spaccato di umanità sempre più attuale, la preghiera, il credo, la fede. Che, necessariamente, non spiegano, offrono una visione universalmente concreta o confortano l’esistenza dell’uomo, ma che si intersecano e intrecciano ad essa. Alle vite individuali dei personaggi, alle loro speranze, disperazioni e rimpianti.
Le luci e ombre di Swaha
Sharma struttura questa sorta di doppia narrazione in un gioco di suoni, tra silenzi imponenti e grida angosciate, e di luci ed ombre, bianco e nero che riflettono la dura realtà in cui è ambientata la vicenda.
Le ombre, nel viaggio di un uomo, come un contemporaneo eroe omerico, che esplora i livelli più bassi di una società e di un’umanità, in una dimensione di miseria e disperazione, in cui, alla fine, a vigere è solo la violenza. Le ombre di una donna, che tormentata dalla fame, dal pianto del figlio e dalle voci di una dea che, reale o immaginaria che sia, la conducono alla follia. E una luce, invece, di chi rinnega le proprie azioni, alza lo sguardo, cerca perdono, per ciò che ha fatto e non ha fatto, e trova, in fondo al percorso, un bagliore di possibilità. In una rappresentazione e testimonianza, come Swaha, della capacità dell’uomo, e del suo spirito, di resistere, ma anche di cedere, e trascendere.