Partendo dalla fine L’ultima settimana di settembre racconta una storia d’amicizia e di responsabilità famigliari. Con Diego Abatantuono nella parte di un ex scrittore deciso a farla finita con la vita. Del film abbiamo parlato con il regista Gianni De Blasi.
L’ultima settimana di settembre è un film scritto e diretto da Gianni De Blasi, basato sull’omonimo romanzo di Lorenzo Licalzi e con Diego Abatantuono e Biagio Venditti protagonisti.
Il film, prodotto e distribuito da Medusa Film e Vision Distribution, è nelle sale dal 12 settembre.
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L’ultima settimana di settembre di Gianni De Blasi
Durante la visione di L’ultima settimana di Settembre riflettevo su come sei riuscito a far convivere la leggerezza di certe situazioni con il fardello psicologico che attanaglia i protagonisti. Alla commedia il film arriva attraverso un’evoluzione che non rinuncia alle tinte drammatiche presenti nella premessa.
L’ultima settimana di Settembre è tratto da un romanzo che ha venduto un gran numero di copie. Rispetto a quello con gli altri sceneggiatori abbiamo dato maggior peso alla figura del nipote e diminuito le asperità caratteriali di Pietro per la necessità, tutta cinematografica, di tenere in equilibrio la linea del dolore con quella della leggerezza. Mi fa piacere che questa cosa si veda È stato come partire dal nodo di un fiocco per poi scioglierlo piano piano. Alla fine la narrazione del film è un po’ così.
Sullo schermo a fare da metronomo del film è, nella parte dell’ex scrittore Pietro Rinaldi, Diego Abatantuono. La misura della sua interpretazione è stata quella di lavorare di sottrazione rispetto al ruolo del grande mattatore. Così doloroso e sottotono sul grande schermo non lo vedevamo dai tempi de Il testimone dello sposo di Pupi Avati.
Sono d’accordo. Diego ci ha da sempre abituato a passare da ruoli estremamente comici e farseschi a personaggi credibili al cento per cento come quelli interpretati per Pupi Avati che lo ha imposto come attore a tutto tondo offrendogli l’opportunità di misurarsi con un cinema più realistico. Diego è un interprete dotato di rara intelligenza, quella che gli permette di cogliere il senso del copione per poi inserirsi nel flusso della scena. Come dicevano in Amici Miei il genio è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione. Lui è così.
L’inizio
La storia parte da un paradosso, quello di un suicidio, che non si compie a causa di una morte inaspettata.
Abbiamo scelto di fare il film per due motivi. Il primo è stato l’incipit costituito da un personaggio anziano che vuole suicidarsi. Da quello abbiamo capito che la massima libertà di un essere umano è quella di togliersi la vita, sempre che quest’ultima non si metta di traverso come capita a Pietro. Noi siamo funzioni dentro l’onda della vita che è superiore a qualunque nostra scelta. L’incipit del libro opportunamente approfondito era un modo per dire che non siamo padroni nemmeno della nostra morte perché la vita se vuole può impedirla in ogni momento.
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L’ultima settimana di settembre è un film che ribalta i codici della narrazione, parte dalla fine e, cioè, dalla morte per arrivare al principio, ovvero alla vita.
Sì, come nei romanzi di formazione più classici la riscoperta della vita diventa riscoperta di se stessi. All’interno di questo schema abbiamo voluto trovare degli altri punti cardine. Uno subito dichiarato è costituito dal vuoto dei genitori, quello lasciato dalla generazione dei quarantenni, a cui peraltro appartengo. È quest’ultimo, con la forza generata dal lutto, a far sì che i figli si colleghino con ciò che è venuto prima, e cioè ai genitori dei nostri padri. Le assenze della generazione a cui appartengo sono presenti fuoricampo. Marcello, per esempio, il fratello del padre di Mattia, lo è per quasi tutto il film: è una voce al telefono, una possibilità, ma non lo vediamo fino alle sequenze finali. Roberta, la madre di Mattia, muore subito e anche l’incidente che ne provoca la morte rimane fuori campo.
Alcuni personaggi nel film di Gianni De Blasi
E quando la vediamo, quella di Roberta, è una presenza fantasmatica, riflessa nello specchietto retrovisore di un’auto.
Più che un fantasma è un ricordo. Sono queste le indicazioni che ho dato sul set. Roberta Mattei per me è la memoria di una dolcezza e forse anche di un senso di colpa. Il riavvicinamento tra Pietro e suo nipote l’abbiamo sentita come una specie di forza centripeta generata dal buco nero che è stato il lutto della nostra generazione. Roberta è un’attrice strepitosa per cui in qualche modo mi dispiace averla potuta mostrare solo attraverso il magnifico cameo che mi ha regalato.
Pietro Rinaldi, soprattutto ci appare come una sorta di Scrooge contemporaneo il cui scarso attaccamento alla vita in realtà è un’altra espressione di egoismo derivato dalla mancanza di ispirazione che non gli permette di dedicarsi all’ossessione della sua vita, ovvero alla scrittura. È un aspetto che rimane un po’ sul fondo, ma che comunque fa parte della complessità del personaggio.
L’aspetto di cui mi chiedi viene sviscerato e poi cristallizzato nella frase pronunciata da Pietro il quale giustifica la mancanza di ispirazione con il fatto che non c’è nessuno per cui valga la pena scrivere. Probabilmente Pietro era uno che scriveva per far leggere le cose all’amatissima moglie. Persa lei si è reso conto che tutto finiva nel vuoto e ha finito per stancarsi.
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L’assenza
Prima hai parlato del vuoto come uno dei temi centrali del film. Questo è presente nelle pieghe della storia e lo si ritrova anche quando apparentemente non sembra esserci. Penso per esempio alla frase di Pietro quando dice “Io non ho fatto niente”. Lì il significato contingente diventa metafora della sua assenza come genitore e dunque al vuoto lasciato dal fatto di non aver partecipato alla vita della figlia.
A me piace molto tutto quello che parla di assenze per cui mi fa piacere che tu lo abbia riscontrato. Le assenze sono forze d’attrazione per quello prima ti parlavo di buchi neri.
L’incontro tra Pietro e Mattia ne è la sua massima versione.
Sì, esatto. In più attraverso di loro il film riflette sui legami di sangue e in particolare sul fatto che bisogna impegnarsi perché questi siano armoniosi ed empatici, il che non è una cosa scontata. Nel film si dice che i rapporti di sangue non sono necessariamente attaccamenti sicuri, non sono automaticamente onesti. L’ultima settimana di settembre parla anche di questo, dello sforzo che bisogna fare per trovare, giorno dopo giorno, armonia in famiglia.
Se il buio e la mdp stretta su Pietro sono il riflesso del dolore e della sua chiusura verso il mondo, l’entrata in scena di Mattia corrisponde al ritorno della vita attraverso immagini luminose e di ampio respiro in cui la natura del paesaggio si fa termometro dell’umore dei personaggi.
Proprio così. Mi fa piacere che questo emerga perché con il direttore della fotografia abbiamo lavorato proprio sulla realizzazione di inquadrature capaci di rispecchiare l’umore dei personaggi. Le strade deserte, le nuvole incombenti sono espressione di un mood in equilibrio tra tristezza e ironia come è appunto l’ultima settimana di settembre in cui il clima è ancora caldo, ma dove già si notano le prime propaggini della nuova stagione.
L’auto come elemento iconico nel film di Gianni De Blasi
La Citroën vintage è l’elemento iconico del film e come tale corrisponde in tutto e per tutto alla personalità del suo proprietario, anche lui fuori posto rispetto ai trend delle mode contemporanee. Quando Pietro la tira fuori dal garage dove è rimasta chiusa per lungo tempo capiamo come lo stato d’uso della Citroen rimandi alla stessa reclusione del protagonista. Il suono garrulo del clacson poi sembra la trasfigurazione del brontolio di Pietro nei confronti del mondo.
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Sì, il personaggio e la macchina sono una cosa sola, un po’ come succede nei manga giapponesi e per esempio in Mazinga. Per Pietro la Citroen è come una corazza; è la sua armatura ed è solo con lei che può affrontare l’ultimo viaggio. E sì, sono d’accordo sul fatto che il clacson possa essere una sorta di estensione della voce di Pietro.
Come in Altamente anche in L’ultima settimana di Settembre crei un punto di vista esterno rispetto al racconto della tua terra. Lì succedeva attraverso la presenza di Emir Kusturica qui con quella Pietro, milanese trapiantato in Salento per amore.
Il fatto è che adoro i personaggi fuori contesto. Mi piace vedere cose o persone stare dove non dovrebbero. È una condizione che mi affascina e che mi spinge verso il realismo magico, genere che adoro. È questa la ragione per cui amo così tanto Edward Mani di Forbice. Se ci pensi Edward con il suo alone dark è un corpo estraneo rispetto allo stuolo di casette color pastello e per me non esiste niente di meglio che vederlo alle prese con la toilette dei barboncini delle signore imparruccate in perfetto stile anni sessanta.
Il cinema di Gianni De Blasi
Parliamo del cinema che ti piace come spettatore e come regista.
Di mio sono legato a un cinema ricco, articolato, altamente simbolico. I miei primi amori sono stati tutti i film di Kusturica, di Fellini, di Terry Gilliam: Brazil è una delle mie pietre miliari. Poi ovviamente c’è Tim Burton fino a Big Fish e cioè fino a quando non faceva film per ragazzini. Per contro a equilibrare la mia vena più barocca è un cinema introspettivo: penso a Bergman e Woody Allen che per il regista svedese ha una sorta di adorazione tanto da condividerne per alcuni film lo stesso dop, Sven Nikvist.