Approfondimento
Pettinicchi racconta l’ultimo dalla parte degli ultimi
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3 mesi agoon
È stato difficile approcciarsi a questo film, non solo per l’importanza e la dicitura storica del suo protagonista, ma anche perché a scriverlo e dirigerlo è Danilo Sergio, un autore di cui sentiremo ancora parlare. Come ci si approccia a un grande debutto? Quindi ho scritto a Vinc (Vincenzo Patanè, CEO e founder di Taxi drivers, ndr):“E se non mi piace, è meglio non parlarne?”, perché bisogna proteggere le realtà coraggiose, nonostante la portata e il livello di maturazione che le stesse opere trasmettono. Se non mi fosse piaciuto mi sarei rifiutata di scriverlo, non avrei voluto dire niente di brutto su un giovane autore che si dibatte tra le realtà indipendenti. E allora ho scritto a Danilo Sergio e gli ho chiesto se voleva parlarmene meglio, in modo da poter capire, in modo da poter sapere. In verità poi non ho aspettato la sua risposta e ho visto il film, tutto d’un fiato, in un solo colpo. Ne sono uscita distrutta.
Danilo Sergio racconta Antonio Pettinicchi come, credo, avrebbe voluto essere descritto lui stesso. Scevro da qualsiasi animosità barocca, folgorante nelle sue sentenze (sempre precise e puntuali nelle parole dei partecipanti alla sua opera) e, infine, dolce. Sergio è dolcissimo con Pettinicchi, senza ricadere mai nella compassione facile. Sergio conferisce una grande autorità storica a un uomo semplice dalla sensibilità eccezionale, sfaccettata, difficile, romantica ma mai, mai, mai tragica. Pettinicchi avrebbe preferito drammatica, perché drammatica definiva l’esistenza nella sua arte, che si esplicitava nella creazione di corpi che, nel corso della loro vita, erano stati, ingiustamente, disgregati, liquefatti ma che, nella visione dell’artista, erano dotati di uno spirito maggiore, di un’interiorità più grande. Erano i contadini del Molise, i cittadini della sua terra.
Pettinicchi, dalle incisioni alla pittura
Danilo Sergio rifiuta di raccontare la storia di Pettinicchi, quella privata, quella scabrosa, quella che riuscirebbe (forse) a dare un sistema di riferimento alle sue opere. Sergio non lo fa, se non attraverso piccoli accenni dei suoi interlocutori: compariranno Lorenzo Canova, storico e critico d’arte; Dante Gentile Lorusso, artista e storico d’arte; Tommaso Evangelista, professore e storico d’arte; Michelangelo Janigro, artista; Augusto Massa, politico; Silvia Valente, curatrice museale; Pier Paolo Giannubilo, scrittore e giornalista e Aldo Gioia. Eppure Antonio Pettinicchi rimane una figura senza passato né futuro. Il racconto segue i fili della sua carriera artistica che rivela qualcosa di più, qualcosa di troppo, qualcosa di intimo, qualcosa di vero. Sembra un tiro alla fune rispetto alle risposte che possiamo dare alle opere di un artista che ha segnato il Novecento, per scoprirlo, per capirlo. Pettinicchi è uno dei primi artisti a cercare l’epica di popolo che segue i dettami di una certa pittura legata al realismo rurale. Mi è piaciuta molto l’espressione epica del popolo soprattutto perché in Pettinicchi, nelle sue prime opere d’incisione, si traduce nella considerazione dell’arte come lo strumento più potente per descrivere le condizioni di tensione e difficoltà. Che si vedono nei solchi profondi delle sue incisioni, nei volti scavati all’osso dei suoi concittadini, nelle rappresentazioni difficili delle realtà provinciale. L’incisione è un procedimento chimico che attraverso l’acido scava il segno, facendo emergere i contrasti chiaro-oscuri. Procedimento che, nella visione che ne emerge da Sergio, diventa metaforica, in grado di creare voragini immateriali e che, a loro volta, vengono travolte dall’estrema energia del suo artista (Pettinicchi, in questo caso).
Le opere che sembrano raccontare meglio Pettinicchi riguardano la Divina Commedia, in un’esplosione – deflagrazione – del colore: lasciandosi travolgere dalla corrente espressionista tedesca, da autori di inizio Novecento come Rembrant e Piranesi e Van Gogh e Kandinsky e Francis Bacon. Un uomo del Molise che ama Leopardi, Caravaggio, Mahler, Gianni Schicchi e la Bohème di Puccini; che dice che tutti loro sono protetti da Dio e che esiste, infine, gente trapassata da Dio. E continua sostenendo che Dio è anche in tutti i contadini che lui dipinge:
[…] che non sono solo contadini ma così li chiamano e va bene lo stesso. La loro resistenza, la loro capacità di vivere rivela la presenza di una forza superiore che li abita. È uno sbocco naturale per loro: il Paradiso
Ed è nella rappresentazione del Paradiso che Pettinicchi si sbizzarrisce di più, sostituendo guelfi e ghibellini con le persone del popolo insieme ad altre grandi figure artistiche. Pettinicchi rappresenta coloro che avevano sofferto molto e soffrendo avevano prodotto con l’arte o con il frutto delle loro fatiche qualcosa che consolava gli altri. In questo, quindi, l’ultimo baluardo di sensibilità di colui che guarda e sa guardare. L’ammirazione del dolore si trasforma in maniera sinestetica nell’esplosione della stessa sofferenza che, a sua volta, scuoteva il valore cristiano della consolazione degli afflitti.
Raccontare Antonio Pettinicchi
Il rammarico di sapere che in questo anno ricorrono i dieci anni dalla sua scomparsa pone un velo malinconico sulla rappresentazione e l’omaggio ad Antonio Pettinicchi. Uno come tanti, ma che segna un lascito nei posteri. Pettinicchi dedica un intero ciclo di opere a Mahler, permettendo al linguaggio artistico di trasfigurare quello musicale attraverso la pittura e il colore. Pettinicchi diceva che Mahler era un santo, magari anche un diavolo (si correggerà poi), ma per quello che ha fatto e che ha scritto in musica non poteva essere considerato nient’altro che un santo. E questa ammirazione di Pettinicchi nei confronti di altri grandi nomi, come il suo, diventa infine un dolcissimo ricordo che Sergio regala a un uomo grande ma molto umile, che guarda gli altri e se ne nutre beandosi di ciò che le curiosità per la vita poteva offrirgli. Sergio accompagna il racconto di Pettinicchi attraverso la Symphony n. 5 di Gustav Mahler. Era inevitabile, mi dice Danilo Sergio. E sì, credo fosse inevitabile che Mahler accompagnasse Pettinicchi, una decisione che trasmette gioia e malinconia perché chissà cosa avrebbe pensato Antonio, così abituato a guadare gli altri, se avesse visto come viene guardato.
Danilo Sergio presenta in anteprima il suo primo lungometraggio, Pettinicchi, alla prossima edizione di Molise Cinema, ma non è nuovo nel mondo dell’arte. Inizia a muovere i primi passi dopo la sua formazione accademica presso l’Università IULM e, un periodo in Erasmus, studiando comunicazione audiovisiva all’Universidad Pontificia de Salamanca. Il suo primo cortometraggio Love Affair debutta nel 2012, esplorando il tema della sessualità per le persone con disabilità; a seguire escono Sabato (2013), Caron! (2013), Amore guardami! (2014) e Viola (2016). Dei suoi lavori possiamo trovare traccia gratuitamente sulla piattaforma Vimeo. Pur non essendo originario del Molise, Sergio si trasferisce a Campobasso e, proprio da qui, inizia a scoprire la regione: piccola, per niente conosciuta, resistente a tante tematiche, dall’isolamento – che è allo stesso tempo infrastrutturale e orografico – allo spopolamento che attanaglia le zone interne del nostro Paese. Il primo vero approccio con questa terra, avviene nel 2021 in occasione del Film Festival della Lessinia dove presenta Gl’Cierv, il racconto del Rito dell’Uomo Cervo. Pettinicchi quindi aggiunge un altro tassello al racconto delle storie che hanno caratterizzato il Molise e, quindi, la sua vita.
Viene in mente, infine, la poesia di Emily Dickinson: “Che l’amore è tutto quel che c’è è tutto quel che si sa dell’amore; eppure basta: sia il carico in proporzione al solco” e ci si chiede se nelle incisioni di Antonio Pettinicchi ci sia un po’ di quel carico e se da quel solco Danilo Sergio sia riuscito ad arricchire il nostro carico.