Se non fosse una vicenda realmente accaduta, Nel nome del padre – Il caso Cirillo sarebbe un fantastico soggetto per un film di fantapolitica. E, invece, il doc di Edgardo Pistone, in onda su RaiPlay, rispolvera una delle pagine più inquietanti della storia italiana.
Il 27 aprile del 1981, le Brigate Rosse rapiscono Ciro Cirillo, assessore democristiano della Regione Campania, e, nell’agguato, uccidono l’agente di scorta, Luigi Carbone e l’autista Mario Cancello.
Ma chi era realmente questo oscuro politico democristiano? Un fedelissimo di Antonio Gava, politico da sempre, considerato in ottimi rapporti con affaristi e personaggi ambigui ai margini della legalità. Per comprendere la scelta dei brigatisti, occorre fare un passo indietro.
Il 23 novembre del 1980 un terribile terremoto provocò tremila morti e distrusse Napoli e interi paesi dell’Irpinia e del Beneventano.
A gestire i miliardi della ricostruzione sarebbe stato proprio Ciro Cirillo, che, tra l’altro, secondo alcuni, avrebbe sposato l’obiettivo dei palazzinari di sfruttare la tragedia del terremoto per deportare in periferia le famiglie proletarie che vivevano al centro di Napoli.
Al tempo, il capoluogo campano era una polveriera e i disoccupati, in corteo, sfilavano ogni giorno in piazza. Nella speranza di soffiare sul vento della ribellione, la cellula campana delle Brigate Rosse rapisce Cirillo.
Nando, Franco e Maria Rosaria, figli dell’assessore, lasciano che Zimbelli, un giornalista di un’emittente locale, funga da intermediario e mantenga i rapporti con i brigatisti. Dopo due mesi di prigionia, Giovanni Senzani, ideologo delle BR, come riscatto del politico chiede tre miliardi di lire, denaro che serve per finanziare l’organizzazione.
I Cirillo racimolano metà della cifra, grazie al contributo di palazzinari che, in buoni rapporti con l’assessore, avrebbero poi messo “le mani sulla città”.
Dopo ottantanove giorni, Cirillo è rilasciato, ma, invece, di dirigersi in Prefettura, come disposto dalle Autorità, è dirottato da alcuni poliziotti a casa sua.
Prima di incontrare il magistrato, ha un faccia a faccia con Gava. Cirillo non risponde alle domande del magistrato e, dopo qualche mese, si dimette da assessore.
Nel nome del padre Il caso Cirillo: quando la D.C chiese a Raffaele Cutolo di mediare la liberazione di un suo assessore
Grazie alla ricostruzione fornita dal giornalista Francesco Piccinini, il doc racconta come il faccendiere Francesco Pazienza, del SISMI, su mandato dell’allora presidente della DC, Flaminio Piccoli, chiese a Raffaele Cutolo, recluso nel carcere di massima sicurezza di Ascoli, di mediare il rilascio di Cirillo con le BR.
Che uno Stato democratico si rivolga a un camorrista sanguinario come Cutolo, capo indiscusso della Nuova Camorra Organizzata. per la liberazione di un politico in mano alle BR, dimostra come, al di là dei proclami di fermezza di facciata, la Democrazia Cristiana, partito di maggioranza dell’epoca, utilizzasse apparati dei Servizi Segreti per scendere a patti con la camorra.
Non solo. A far visita a Cutolo in carcere furono anche Casillo, suo luogotenente, al tempo latitante, e alcuni politici democristiani.
In cambio dei suoi servigi, Cutolo ottenne il trasferimento in altre carceri di sessanta dei suoi affiliati e la promessa che gli appalti della ricostruzione sarebbero stati affidati a ditte sue amiche.
L’intervento dei Servizi Segreti e la trattativa con la camorra
A negare in qualche modo il coinvolgimento di Cutolo e dei Servizi Segreti, i figli di Cirillo, ma la loro versione è sconfessata dai magistrati Libero Mancuso e Carlo Alemi, titolari al tempo dell’inchiesta.
Nel nome del padre Il Caso Cirillo é arricchito di filmati di repertorio dell’epoca. Compare anche Vittorio Bolognese, uno dei brigatisti autore del rapimento Cirillo e, per la prima volta, sono mandate in onda le registrazioni delle telefonate intercorse tra Zimbelli e i brigatisti.
Le ultime parole del boss. Raffaele Cutolo e la vicenda Salvia