Comincio la mia edizione 2013 del Rome Independent Film Festival con il concorso internazionale e con un’opera prima. Two hundred thousand dirty, dell’esordiente Thimoty L. Anderson, possiede un incipit simile ad uno scatto trattenuto: non si distende e pervade tutta la narrazione, ma purtroppo scompare dopo un po’, annidandosi in qualche buona intuizione anche visiva e tipologica, pronta però a ritrarsi ogni volta. Rob (Mark Greenfield) seduto sulla tazza di un wc, vestito da coniglio gigante, con la testa-mozza del costume appoggiata al lavabo, parla al cellulare a Manny (Coolio), suo ‘complice’ di feste animate (compleanni, e in alcuni casi, festini fetish), che lo attende in macchina. Ha un piccolissimo ma insidioso dubbio: che la donna nella camera a fianco, sia la sua. Che non riuscirà a prendere a palettate quel ciccione vestito da sioux, con lei in costume sadomaso che lo incita, eccitata… Rob comincia a farci entrare in testa quel fuck, che diventerà più di un intercalare, più di uno slang. Il fuck è il simbolo (indubbiamente abusato, già sperimentato in altre occasioni e da molti come elemento di ‘rottura’ ironico-linguistica) di una noia-fissità esistenziale alla quale i protagonisti della nostra storia non hanno altro da opporre che un ‘fuck’. Il cinico minimalismo della provincia americana ci accoglie nei quadri statici di un’alienazione reale ma non troppo, drammatica ma non troppo, nel no sense dei personaggi e situazioni che la raccontano.
Un centro commerciale impresso-isolato nel primo piano di una vetrina malandata di un materassificio è la location per eccellenza dell’immobilismo. Il vero luogo di non lavoro per Rob e Manny e il loro ‘ossigenato’ titolare, ex crackkista (consumatore di crack) impegnato a tener in piedi una baracca con poco più di un visitatore a settimana, dove i materassi sono sempre gli stessi, in cui l’insulto reciproco è la garanzia più salda di affetto e stima. Piccoli e ingenui bambini, a cui si aggiunge Martin, collega dirimpettaio ben riprodotto nell’effetto lobotomico-esistenzialista da C. Clayton Blackwell. La rottura con la sua donna segna una piccola svolta per Rob, ancora più in discesa. E il novus che da lì a poco penetra nel piccolo microcosmo, pare realmente portare dei mutamenti, specie per Rob. Isabelle, la nuova impiegata, assunta su commissione in quanto donna-fidelizzatrice, è una timida luce che si rifrange su una proposta, indecente e insieme allettante, nelle prospettive che si insinuano: uccidere il marito tiranno da cui è fuggita, riscattare i soldi dell’assicurazione e scappare insieme in Brasile. Il gruppo degli statici e imbranati amici si metterà all’opera tra idee decadenti, colpi di sfortuna a destini incrociati, ed esito dalle prospettive risvolte. Tutto tornerà com’era: non si sfugge alla propria condizione, nemmeno il credere così ingenuamente ad un sogno può strapparti via da essa. Anderson riproduce un’atmosfera dai richiami Kaurismakieschi: ingenui vinti dall’esistenza, ‘più rozzi-volgari’ (più americani), ma ugualmente paradossali e, a loro modo, poetici. La fissità ha pure una originalità visiva in schembe verticali inquadrature, in una ‘doppia dimensione’ quasi pittorica di una bella scena di separazione. Peccato che gli incastri narrativi e le sospensioni molto spesso manchino di funzionalità, di progressione. Nel finale, pare tutto andare per inerzia, depotenziando gli indubbi elementi propri di una partenza filmica da fruttificare nelle prossime pellicole.
Maria Cera
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