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Approfondimenti

Peter Weir, il cinema fuggente di un maestro

All’81a Mostra del Cinema di Venezia la masterclass del grande regista australiano

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Peter Weir

Peter Weir ha lasciato un segno indelebile nella storia del cinema, pur avendo girato pochi film, quattordici in quarant’anni di carriera. Tutti titoli, però, con una forza visiva e narrativa sempre originale, che hanno dato spazio a grandissime prove interpretative. Dall’indimenticabile prof. John Keating di Robin Williams nell’Attimo fuggente (1989, quante vite ha segnato quel film?) al Jim Carrey di The Truman Show (1998), passando per Picnic ad Hanging Rock (1975) e Master & Commander (2003).

La masterclass, condotta da Paolo Bertolin, è stata l’occasione per ripercorrere tutte le tappe della carriera di Peter Weir, dialogare con lui, apprezzare la vitalità di un ottantenne che ha smesso con il cinema, ma continua ad amare profondamente la vita.

Quando hai realizzato nella tua vita di essere un appassionato di cinema?

Sono stato bambino anni prima che arrivasse la televisione. Il cinema era già il mio passatempo preferito.

Ricordi quali fossero i primi film che hai amato?

Per una mente così giovane, quelle immagini sullo schermo creavano una forte impressione. Amavo i western, più di tutto, allora erano ancora molto popolari.

Che ricordo hai di quando hai iniziato a fare film?

Era davvero un momento eccitante per il cinema australiano, si parlava della nostra New Wave. Quando ho cominciato il mio primo film, mi sono reso conto che non avevo nessuna reale esperienza del mezzo cinematografico. Avevo fatto delle cose in 16 mm, ora mi trovavo con un anamorfico Panavision a 35 mm… diciamo che mi sono ritenuto fortunato ad aver portato a termine quel film.

Picnic ad Hanging Rock

Picnic ad Hanging Rock

Picnic ad Hanging Rock è il tuo terzo film, quello che ti ha fatto conoscere. Come hai scelto questa storia?

Di molti dei miei film sono anche sceneggiatore, quindi sono storie che mi hanno in qualche modo colpito, che sono nate da una mia fantasia o osservazione del mondo. Delle volte è un mistero anche per me come scelgo soggetti che mi arrivano dall’esterno. In generale preferisco lavorare su libri di scrittori già morti, perché così non devi discutere con loro. Bisogna prendere una storia di qualcun altro e farla entrare nella tua sensibilità, come mangiarla e renderla parte del tuo sangue. Per Picnic ad Hanging Rock, a causa del limitato budget, ho diviso le scene per importanza: A e B. Le A dovevano essere perfette. Se per la luce giusta potevamo filmare solo un’ora al giorno, abbiamo fatto così, tornando anche per sei giorni, sempre nello stesso posto, solo per un’ora. Le scene di valore B, invece, le facevamo velocemente, perché magari situazioni di raccordo e passaggio, anche nei dialoghi.

Molti tuoi film parlano dell’incontro tra culture diverse.

Credo possa essere considerato un tema ricorrente nei miei film, trovare un personaggio che, per una ragione o un’altra, è sfidato nella sua identità da ambienti diversi. Persone che incontrano qualcosa di differente dal loro mondo abituale, che li rendono capaci di capire qualcosa in più di loro stessi. È qualcosa di vivo anche nella mia esperienza biografica, quando mi sono staccato dall’Australia e sono venuto a conoscere prima l’Europa, dopo gli Stati Uniti.

In molti momenti della tua carriera da regista, nella scelta degli interpreti, hai mostrato un potenziale che avevano certi attori, che fino a quel momento non si era manifestato. Mel Gibson si era fatto un nome con Mad Max, ma poi è grazie a Gli anni spezzati e Un anno vissuto pericolosamente che è stato visto anche come attore drammatico e Harrison Ford era Indiana Jones e Star Wars. È stato qualcosa di consapevole da parte tua scegliere attori per interpretare ruoli che non erano proprio quelli che ci saremmo aspettati?

Quel che so è che, quando incontravo queste persone, pensavo fossero attori hollywoodiani così famosi che credevo di non poterci lavorare, ma poi, chiacchierando, bevendo qualcosa, percepivo un rapporto che si creava. È così che nasce il lavoro migliore. Quando sono sul set, non si tratta del tuo ego o del mio. Sì, io sono il leader, ho l’ultima parola, ma non farei mai qualcosa che ti possa far sentire a disagio.

Master & Commander

Master & Commander

Ci sono stati incontri artistici che per te sono stati particolarmente importanti?

Ricordo, di grande ispirazione per me, Stanley Kubrick. Ho passato un pomeriggio e una serata meravigliosi con lui, nella sua casa in Inghilterra, nel 1982. Quando gli facevo i complimenti per le sue immagini cinematografiche, lui diceva è ​​il potere dietro l’immagine a contare. Ed è questo che ho sempre cercato, questo potere. Così forte che potresti mandare in frantumi un vetro. È andare lì, nel profondo della mente.

Un altro aspetto notevole dei tuoi film è l’uso della musica.

Mentre giravo per la casa di Stanley Kubrick, gli ho chiesto: «Stanley, non ti piacerebbe fare la musica da solo? Ha detto, oh mio Dio, sì». Come lui, penso che, tra tutte le arti, in cima alla montagna ci sia la musica. Immagino che, quando i primi uomini disegnavano sulle pareti delle grotte, fischiassero e suonassero tamburi. Tutti i miei film sono realizzati con la musica. La ascolto quando lavoro alla sceneggiatura e quando giro. A volte, in auto, mentre andavo a lavoro sul set, indossavo le cuffie e ascoltavo musica per entrare in una sorta di trance, oltre le parole, oltre l’intelletto. Perché la cosa più difficile è liberarsi dal proprio intelletto, facendo film. Ne hai bisogno per la razionalità della storia, per poter parlare con le persone, ma la cosa più importante di tutte è quel che non è vedibile, l’inconscio, l’ispirazione, la musica.

L'attimo fuggente

L’attimo fuggente

In L’attimo fuggente, c’è un attore che diventerà una sorta di modello, Robin Williams, ma anche molti volti giovani che poi, come Ethan Hawke, hanno fatto una grande carriera.

Prima di tutto, devo dire che il direttore del casting è stato molto bravo. Sei davvero come un detective che cerca una persona scomparsa quando fai il casting. E, come regista detective, devi decidere chi è il vero uomo di questo personaggio.

Penso che anche il montaggio sia una delle cose che rendono i tuoi film così speciali.

In primo luogo hai bisogno di un buon montatore, naturalmente. Io dico al montatore: «Taglia tutto quello che vuoi. Taglialo come se fosse un tuo film. Io andrò via per tre settimane e poi verrò a vederlo». In questo modo, ricevo tutte le idee dei montatori, anche cose a cui non avevo pensato. Poi inizio il mio lavoro. Parte di questo processo è studiare tutti gli scarti. Un’altra cosa che faccio è guardarlo in silenzio. Solo immagini. Vedo se le immagini raccontano la storia senza audio. Inoltre, mettevo una grande R sul muro: R come Ripetizione. Il mio motto è: «Ditelo una volta e ditelo bene».

Quanto tieni al responso del pubblico?

Tantissimo. Ho realizzato i miei film per il pubblico. Voglio dire, pagano per venire a vedere il film e tu vuoi fargli vivere un’esperienza. Un’esperienza che il denaro, nella vita reale, non possa comprare.

Qual è la cosa più importante per chi oggi comincia a fare il regista?

Penso scrivere, invece di riprendere. Oggi tutti abbiamo le telecamere. Potete immaginare quando ho cominciato quanto fosse costoso. Io credo che un pezzo di carta oggi è molto meglio di una telecamera. Inizia a scriverci sopra. Una volta sono andato in una scuola di cinema: tutti avevano le telecamere pronte montate per fare pratica. Io ho chiesto di portare via ogni cosa. Ho detto: «Sediamoci. Ditemi, c’è qualcosa che avete notato venendo qui stamattina? Avete visto qualcosa di strano? Una donna che vi ha colpito guardare fuori dalla finestra? È successo qualcosa?». Bisogna pensare di più. È stato come farli entrare in una palestra per esercitare l’immaginazione ed essere osservatori. Le telecamere sono solo attrezzature, cose per registrare. Prima di tutto, devi far funzionare la tua immaginazione.

Davvero non farai più film?

Sì, sono in pensione, da cinque anni. Ho consegnato distintivo e pistola. Mi ci sono voluti due anni per uscire dalla dipendenza. Generazione più giovane, è il vostro turno. A voi dico di ridere di più, godere il dono della giovinezza, non preoccuparsi troppo. Ci sono alcune cose che, inevitabilmente, ci fanno paura, a livello personale e sociale, ma l’ansia è un nemico. E dovete avere più contatto con la natura. Non avere paura del mondo e di voi stessi. È bello essere giovani. Avete un grande dono nelle vostre mani.

The Truman Show Peter Weir

The Truman Show

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