In concorso nella sezione Orizzonti, durante l’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Aïcha è sicuramente tra i titoli più emozionanti di questa kermesse. Scritto e diretto da Mehdi M. Barsaoui, originario di Tunisi, classe 1984, il film prende spunto da un incredibile fatto di cronaca. La storia della protagonista si rivela così utile a raccontare uno spaccato sociale e politico alquanto complesso e attuale.
Al suo secondo lungometraggio, il giovane cineasta realizza un’opera potente, da qualsiasi punto di vista la si osservi, forte anche della performance di un’attrice straordinaria, che risponde al nome di Fatma Sfar. Attraverso il suo sguardo, lo spettatore scopre quanto dolore possa celarsi dietro alcune scelte di vita, e quanto forte sia la speranza di chi sopravvive nonostante tutto.
Morire per rinascere
Se nella realtà – più precisamente a Tunisi nel 2019 – una ragazza, miracolosamente uscita illesa da un’incidente automobilistico mortale, decise di farsi credere morta per testare l’amore della sua famiglia, in Aïcha cambia il motivo ma non la sostanza. Aya (Sfar) ha quasi trent’anni e lavora da quando ne ha 12. Lo fa solo per dare una mano ai suoi, che sono pieni di debiti e meditano di farla sposare con un uomo molto più anziano così da avere soldi sufficienti a saldarli e rifarsi una vita.
Senza mai lamentarsi nè fermarsi, Aya sogna qualcosa di diverso per lei. A partire dalla relazione con il suo capo, il direttore dell’albergo dove è impiegata, che gli ha promesso di lasciare la moglie e mettere su famiglia insieme. Passano i giorni e niente sembra migliorare, sino a che un terribile incidente la metterà dinanzi a una scelta particolare. Avendo la possibilità di fingersi morta, decide di trasferirsi in città, lasciando il suo paesino di nascita, e di inventarsi una nuova identità.
Aïcha insegna cosa voglia dire “essere vivi”
Aïcha fotografa una realtà dentro la quale le donne hanno poche, pochissime, possibilità per emanciparsi ed essere libere di esprimere se stesse. Chi ci riesce, è costretta a grandi sacrifici. E c’è persino chi rinuncia alla propria moralità, alla ricerca di un’indipendenza che è, in fondo, più che illusoria. La protagonista si fa portavoce di un’esigenza condivisa, di sogni e ambizioni troppo spesso tenuti nascosti, se non addirittura seppelliti, dietro un velo o un’esistenza fatta di arrendevolezza e dolorosa accettazione.
Il viaggio di Aya, al tempo stesso eccezionale e simbolico, fa sì che la coscienza di chi guarda venga scossa, portando a riflettere sul vero significato e sul valore della libertà. Se in Occidente diamo per scontate e naturali una serie inimmaginabile di cose, dall’altra parte del mondo esistono luoghi dove la corruzione, la criminalità e la sottomissione del genere femminile sono talmente radicati nella società da non farci quasi più caso. La sopravvivenza sembra l’unica forma di esistenza possibile. E chi si ribella, rischia di essere messo a tacere per sempre. In un simile scenario appare più che mai apprezzabile ed emozionante la scelta del titolo per la pellicola: Aïcha in arabo vuol dire “essere vivi”.
*Sono Sabrina, se volete leggere altri miei articoli cliccate qui.