There Was Nothing Here Before approda nella serata dell’11 settembre a Euganea Film Festival. Un documentario della durata di settantuno minuti, diretto dal regista svizzero Yvann Yagchi. Si tratta di un lavoro particolarmente interessante in quanto dotato di una sorprendente capacità metamorfica: assume diverse forme, veicola messaggi complessi e vari e, infine, si rivela capace di raccontare una storia che è in grado di tenere “con il fiato sospeso”.
There Was Nothing Here Before: più anime in uno stesso film
Il film di Yagchi presentato a Euganea Film Festival porta costantemente in scena due punti di vista opposti, molto difficili da conciliare: da una parte il regista in prima persona, svizzero, di origini palestinesi; dall’altra, il suo più caro amico d’infanzia (che appare sempre con il viso coperto), con il quale nel corso del tempo ha perso i rapporti e che è diventato un colono ebreo.
È chiaramente un documentario che vuole mettere al suo centro un unico protagonista: il confronto. Punti di vista, differenze, incomprensioni: alla ricerca di cosa? Della verità, specifica il regista. Salvo poi accorgersi che tale ricerca potrebbe rivelarsi vana, specie in un contesto sociale, politico e culturale così denso di conflitti e mancati compromessi, anche storici. Ma pure di emozioni e vissuti personali, specchio di collettività percosse nelle loro più recondite origini.
There was nothing here before è anche, e soprattutto, un film intriso di emozioni: il protagonista è agitato per l’incontro, in terra palestinese, con il suo vecchio amico d’infanzia ed esprime questa sensazione affermando che la camera “trema”. Le sue emozioni vengono trasferite al pubblico tramite un chiaro processo di immedesimazione, che inevitabilmente passa attraverso lo strumento macchina da presa. È cinema che parla di vita, nel senso più letterale possibile.
Lettera aperta ad un amico d’infanzia quasi perduto
There Was Nothing Here Before si apre come una pagina di diario animata. A prendere parola, nella prima scena, è proprio il regista, rivolgendosi ad un vecchio amico d’infanzia, di cui ha praticamente perso le tracce, nel corso del tempo.
“Ciao amico mio, è passato un po’ di tempo da quando abbiamo parlato l’ultima volta. Non so se queste parole ti raggiungeranno, ma voglio raccontarti la mia versione della storia. Sei uno degli amici più stretti della mia infanzia, e mai avrei immaginato che un giorno la nostra amicizia mi avrebbe fatto salire su questo autobus pieno di coloni israeliani (…)”
È l’inizio di un viaggio, alla ricerca delle proprie origini – in questo caso palestinesi – ma non solo; è anche la ricerca del punto di rottura, di divisione, con quello specifico amico, che improvvisamente è diventato un estraneo, con idee e visioni di vita completamente differenti da quelle del regista. È dunque un film che comporta una necessaria riflessione sul concetto di amicizia, che si trova qui intersecato con quello di identità. Pare che tali concetti non possano separarsi e non sempre questo è di aiuto al rapporto tra i due amici, già segnato da inevitabili distanze.
Chi è uno, e chi è l’altro? E, soprattutto, queste due identità, così radicalmente diverse e differenziate nel tempo da fatti e scenari di vita, possono trovare un punto d’incontro? L’affetto, ancora vivo tra i due, può riuscire a superare le diversità e garantire un finale ricongiungimento? Si tratta di quesiti che troveranno risposta solo al termine del documentario.
Punti di vista e riflessioni
There Was Nothing Here Before non offre risposte certe, ma molteplici spunti per riflessioni su temi tra i più disparati, che però toccano a livello personale i protagonisti e di riflesso gli spettatori; specie in un periodo storico come quello nel quale viviamo, dove il concetto di identità non è certamente garante di collante tra popoli. Tutto il contrario: crea divisioni e, nel peggiore dei casi, guerre.
Dunque, perché filmare la realtà di più punti di vista, senza censure? Lo spettatore è portato a porsi spesso questa domanda in tutta la durata del documentario. Non esiste un finale e reale approdo ma solo la possibilità – attraverso l’occasione che la macchina da presa offre mostrando diversi modi di vivere la stessa realtà – di sviluppare un proprio pensiero critico e riflettere sulle proprie credenze, ideali e fedi. Una forma, insomma, di personale libertà interiore.