Peacock, il primo lungometraggio del giovanissimo regista austriaco Bernhard Wenger risente degli echi di Ostlund e di Andersonn nel suo intento di estraniare lo spettatore. Difficile sin da subito risulta empatizzare con il protagonista Matthias, un giovane di bell’aspetto con una grande casa dal design moderno, una compagna insofferente, Sophie, e un bizzarro lavoro.
È dipendente di My companion che ricorda una delle invenzioni distopiche di Black Mirror. L’agenzia si occupa di fornire a chi lo richieda una persona in prestito che può assumere diverse identità a seconda della necessità di ciascun cliente. Il papà che parla del suo lavoro a scuola, il fidanzato perfetto da sfoggiare in un concerto di musica classica, una spalla per fare pratica sul modo migliore in cui affrontare una lite con il proprio marito (la trovata forse più divertente).
Il pavone già incontrato in una scorsa edizione del festival di Venezia nel film corale di Laura Bispuri, dove si chiamava Paco e si innamorava di una colomba dipinta in un quadro, qui è solo una sbiadita presenza di passaggio, un espediente per un paragone semplicistico con il protagonista: entrambi sono inafferrabili e inavvicinabili agli altri che possono solo ammirarne l’aspetto esteriore.
Quando cade la maschera
Matthias ha una stanza piena di scatoloni dove ripone i vestiti di scena dei suoi impieghi passati. Il problema sorge dal momento in cui, tolte tutte le maschere, Matthias sembra continuare la farsa anche nella vita reale e non riesce più a ritrovare la sua autenticità. L’interprete Albrercht Schuch come richiede il personaggio, si muove come una marionetta, assente agli altri e a se stesso.
Un pulmino pieno di gente che balla gli passa davanti mentre è fermo al semaforo; un’immagine che sintetizza la sua completa apatia rispetto alla vita che scorre intorno. Il silenzio imbarazzante durante una conversazione dove, disinteressato, non riesce o non vuole dire la sua. Una caratterizzazione così monocorde rischia di allontanare lo spettatore rendendolo altrettanto disinteressato alle vicende di un uomo benestante che non riesce a vivere la sua vita.
Le inquadrature pulite e fisse su scene bizzarre ripetono soluzioni stilistiche già viste. Il finale reinterpreta quasi alla lettera la scena della performance d’arte contemporanea di The Square, dove l’uomo-scimpanzè sconvolge i commensali in una cena altolocata.
Meno grottesco e dissacrante di un film di Lanthimos, dallo humor leggero e sorprendente in alcune sequenze, Peacock resta come il suo protagonista, un contenitore vuoto.