Maria continua la personale galleria di Pablo Larraín di ritratti di donne del ‘900, rimaste nell’immaginario collettivo per la loro storia e il loro stile. Dopo Jacqueline Lee Kennedy Onassis (Jackie, 2016) e la principessa Diana (Spencer, 2021), Maria Callas. In un film che in qualche modo si compenetra con Jackie, visto che sarà proprio la vedova Kennedy a sposare il brutto e ricco (come si autodefinisce lui stesso) Aristotele Onassis, grande amore della Callas. Per il regista, una sorta di filmografia (in inglese) parallela ad altre opere (in spagnolo) più sperimentali o politicamente impegnate.
Maria comincia con la morte della sua protagonista in una struttura circolare che può, non a caso, ricordare Viale del tramonto (1950), in una moderna ed estetizzante chiave operistica. Tutto il film è girato in un simbolico e reale autunno, come quello della vita della Callas, qui raccontata nei suoi ultimi giorni, prima di morire, a soli 53 anni, nel settembre 1977, imbottita di pillole di ogni tipo.
In Maria c’è tutta l’autodistruttività di una diva al tramonto, in continui passaggi dalla quotidianità del presente ai trionfi teatrali del passato. Giù indietro fino agli anni cupi e poveri dell’adolescenza in Grecia, sotto l’occupazione tedesca, quando la madre la offriva, insieme alla sorella, per l’intrattenimento dei soldati tedeschi occupanti: anche allora desiderata per la voce, non per il corpo.
«Ho cercato qualcosa che ho perso», dice Maria Callas nel film. Non solo la sua voce, che tenta malinconicamente e disperatamente di recuperare, ma tutto il lavoro biografico di scavo che cerca di fare Pablo Larraín in Maria, in una ripetuta frantumazione temporale e narrativa, sino al finale in puro melodramma, con Vissi d’arte e la protagonista che muore cantando, come in ogni opera lirica che si rispetti.
«Non c’è alcuna vita fuori dal palco. La mia vita è l’opera», sentenzia la Callas. Infatti, Maria è verosimile e strutturato come un melodramma: quindi artificiale, scenografico, esagerato, a volte stucchevole e a volte sublime in estasi artistiche, come il mondo che è tutto teatro da cui proviene Maria Callas. Una narrazione sulla linea di confine tra realtà e fantasia, con le continue visioni della mente disturbata della protagonista, che vede intervistatori (con il nome delle sue pillole) ovunque, trattando male i suoi reali adoratori. Un ritratto di diva nella sua vulnerabilità, al contrario di quanto appariva imperiosa sulle scene.
Maria Callas e il film di Pablo Larraín combattono contro il vuoto di una vita troppo piena di riflettori e infelicità personali, di ossessioni per il proprio corpo guardato solo come voce, che Maria ci restituisce, essendo tutti i brani lirici ascoltati cantati dalla voce autentica e inimitabile della Callas.
La diva Angelina Jolie è magnetica nel suo ruolo di assoluta protagonista, ma non scompare per (ri)apparire nella divina Maria Callas. La sua è un’interpretazione misurata, sempre elegantissima, anche grazie ai magnifici costumi di Massimo Cantini Parrini, che restituiscono il fascino di un’epoca e di un mondo. C’è una grazia intorno all’immagine così costruita della cantante, che si erge come una regina, in qualunque ambito si muova (complici le scenografie di Guy Hendrix Dyas). Vestiti la cui importanza è subito sottolineata dall’atto della Callas di bruciare un guardaroba come rito di passaggio per staccarsi dal suo passato.
Nei ruoli (reali) dei due domestici del celebre soprano ci sono gli italiani Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher, dimessi e gregari in interpretazioni non certo tra le più memorabili della loro carriera. Preziosa, sorprendente, la fotografia di Edward Lachman, che illumina il film come continui quadri, in un lussureggiante bianco e nero negli stacchi dal passato. Punto più debole dell’intera operazione la sceneggiatura di Steven Knight, con dialoghi a volte troppo scolpiti.
Maria, nella sua apparente freddezza estetizzante, nella sua bellezza formale che cura maniacalmente ogni dettaglio, è un caos calmo e ipercontrollato. La tragedia di una persona che non riesce a guarire le proprie profonde ferite con la sua arte, per quanto immensa e sconfinatamente ammirata.