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Ti West: l’intervista esclusiva al regista di ‘MaXXXine’

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In occasione dell’uscita nelle sale di MaXXXine, il terzo capitolo dell’amata saga di X con protagonista la Scream Queen Mia Goth, la nostra redazione ha avuto l’occasione di incontrare e intervistare in esclusiva il regista Ti West. Il suo nome è ormai da tempo nell’orbita dei grandi registi contemporanei, capace assieme a colleghi come Ari Aster e Robert Eggers di indagare e rinnovare non solo le strutture di un genere, quello dell’horror, che grazie a loro si sta elevando sempre di più, ma anche di dare una forte spinta all’arte stessa di fare un film.

Tra realismo e puro cinema

In altre interviste hai dichiarato che il tempo e le ambientazioni dei tuoi film devono essere i più realistici possibili, così da favorire al meglio l’identificazione con i personaggi che li abitano. Tuttavia, è indiscutibile che nei tuoi lavori siano presenti riferimenti chiari e costanti alla dimensione puramente finzionale e filmica del cinema. Quindi, ti chiedo: tutti questi riferimenti sono soltanto una dichiarazione d’amore verso il cinema e la sua Storia, oppure si tratta di un tentativo di rinnovamento stilistico ed estetico dell’arte del fare i film?

In questi ultimi tre film in particolare si tratta di opere “film-centriche”: ognuno ha uno stile molto differente, che recupera quello di una precisa era del cinema, e la sua realizzazione è fortemente incentrata su questo. C’è sicuramente la volontà di strizzare l’occhio ai film di quei periodi, ma per la maggior parte si tratta, secondo me, di far sembrare il tuo film come un prodotto del momento storico a cui stai guardando: se provi a fare un film horror anni ’70 o un film thriller/horror anni ’80, una parte del tuo lavoro dev’essere anche di rendere il mondo diegetico esattamente identico alla realtà del periodo. Devi prendere le auto giuste, i vestiti e i materiali scenici più adeguati e tutto il resto. Ma non puoi limitarti a raggruppare tutta quella roba, a fotografarla, a editarla e a inserirla di colpo dentro un film contemporaneo, perché il tuo intento referenziale non è solo di guardare con ammirazione a un decennio del passato, ma anche di far capire al pubblico che al tempo i film si facevano secondo quelle modalità: dunque di restituire delle precise atmosfere.

Gran parte di quello che ho provato a fare con la Trilogia è stato perciò di ricreare i passaggi che venivano seguiti dai filmmakers di quel periodo. Oggi, quando guardi uno show televisivo o un film ambientati in una decade ormai passata, senti qualcosa di strano, qualcosa che non va. Certo, i personaggi hanno addosso gli abiti giusti, ma lo sguardo è moderno: è stato girato con strumentazioni attuali; al tempo le gru non facevano quei movimenti. Realismo e cinema sfregano sempre l’uno contro l’altro. Io comunque provo a unire entrambi in modo da rendere l’atmosfera e il setting i più convincenti possibili, così non saranno motivi di distrazione. Se tutto va bene, lo spettatore apprezzerà il look e l’esperienza del film, ma soprattutto non verrà distratto dal pensiero che un gruppo di persone hanno provato a ricreare una decade falsa e poco credibile. Quindi, da un lato avrai nostalgia e un ricordo di quello che è stato, dall’altro avrai una nostalgia e dei ricordi che derivano da come il passato ti è stato presentato attraverso i media. Questo è uno dei fulcri del mio lavoro.

Raccogliere un’eredità pesante

I generi horror e thriller hanno progressivamente preso le distanze da ciò che sono stati in passato e alcuni ad oggi inseriscono la tua filmografia all’interno dell’attuale movimento autoriale che sta cercando di elevarli e staccarli dalle loro origini di serie B. Pensi che l’eredità giunta dagli anni ‘60/’70/’80 necessitava di essere migliorata ed elevata? Se sì, come lo sta facendo il tuo percorso artistico in particolare?

Sai, è qualcosa di molto soggettivo, dipende dai gusti delle persone. Voglio dire, i film dei periodi che tu hai menzionato sono una parte importante del mio gusto. Sono cresciuto con quei titoli. Inoltre, i film erano fatti diversamente a quei tempi. Mi riferisco soprattutto al fatto che gran parte della reverenza che culturalmente quelle opere hanno ottenuto sia arrivata perché si tratta di qualcosa che non tutti facevano. Oggi, invece, chiunque ha una camera sul proprio cellulare, e la maggior parte di noi si ritrova sui social media ad avere a che fare costantemente con immagini in movimento. Quindi, l’importanza o la rilevanza che scaturiscono dal vedere qualcosa che è stato fatto in un film non sono più di grande interesse per chi li guarda. Non dico che non gliene freghi nulla o che non gli piaccia: non è più una cosa magica come lo era prima.

Ora si tratta sempre di fare qualcosa che tutti si aspettano. E quindi, sì, possiamo ammettere che i contenuti siano diventati il vero termine di confronto. Siamo nella situazione in cui c’è troppa roba che tutti si aspettano di vedere: quando esce la prossima cosa nuova, quando esce il prossimo film nuovo? Purtroppo il quesito principale dello spettatore non è più riferito al posto dove andare a vedere quei prodotti e il pensiero che si ha prima di vederli non è più: “non so nulla di questo film, non so come lo hanno potuto fare.” È un grande mistero, un vero motivo di eccitazione per me, perché tutto questo sta sparendo completamente ormai. Penso sia cambiato il modo in cui le persone si approcciano alla visione del film. Nei decenni a cui avete fatto riferimento, invece, questa sensazione era ancora presente per la maggior parte. C’era molto apprezzamento per il semplice fatto che un gruppo di persone fossero state in grado di radunarsi e fare quello strano film che nonostante tutto ti ha intrattenuto e stimolato. Oggi l’attitudine è diversa: “quando arriva la prossima cosa nuova?”.

Quindi, la mia prospettiva nel fare un film che si riferisca a quel preciso periodo è legata al fatto che mi consente di allontanarmi da molta produzione contemporanea. Non sono nemmeno troppo divertenti le fotocamere dei cellulari e le altre cose simili: è che non sono particolarmente cinematografici. Avere dunque la possibilità di entrare come regista in un mondo diverso e perdermi creativamente è per me molto più soddisfacente. Il mio entusiasmo viene da qui. Non so affatto che cosa abbia fatto elevare gli intenti del cinema horror. Mi limito in un certo senso a farlo. Non so se è bello o brutto. E per quanto riguarda l’aggiornare certi stilemi, è una questione puramente personale, sulla base di quello che ti interessa. Ma alla fine, secondo il mio parere, più roba c’è meglio è: anche se ci sono molte cose che possono non mi piacermi, ciò comunque significa che là fuori sempre più persone possono far sentire la propria voce. E questo è fantastico.

Maxine Minx: voglia di essere una star

La nostra prossima domanda è su MaXXXine, il tuo ultimo film. La protagonista, Maxine Minx, è subito diventata un’iconica Scream Queen dell’industria cinematografica, soprattutto grazie al suo complesso profilo psicologico. Ma alla fine, Maxine vuole comunque continuare a perseguire questo futile scopo della fama, essere una star mondiale a tutti i costi. È questa ricerca una mera conseguenza dei traumi che ha vissuto? Oppure si tratta di un attacco morale all’industria di Hollywood, che raramente vediamo così esposta come, appunto, in questo film?

Credo che, parlando del personaggio, sia giusto semplificare le cose. Le cose che hai detto sono sicuramente giuste, ma credo che in fondo ciò che ha permesso alle persone di identificarsi così tanto con lei e con i tre film è che c’è qualcosa di universale nel vivere una cera vita e desiderare al contempo di averne un’altra, completamente diversa e migliore di quella che già si ha. E sperare che quell’altra vita a cui pensi possa riempire il tuo vuoto o darti qualche sorta di significanza che credi ti manchi: nel caso di Maxine, sì, ha questo papà piuttosto repressivo e cerca di fare tutto il contrario di quanto lui predichi per sfuggirgli. Ma alla fine entrambi rientrano nello show business, quindi non sono molto diversi.

E per quanto riguarda la critica su Hollywood, non so bene cosa dire su questo aspetto. Ci sono certamente cose positive e cose negative nell’industria, ma per quanto mi riguarda ho sempre guardato ad Hollywood come il simbolo di qualcosa che chiunque voglia cambiare vita è disposto a raggiungere, anche a costo di fare le cose peggiori. Questo riguarda tutti in un modo o nell’altro. Ovviamente, si spera che restino esclusive le modalità con cui Maxine arriva nel mondo dello spettacolo, ma il desiderio che prova è di tutti: “se solo avessi questo sarei più felice!” .

L’horror e il western: ‘Nella valle della violenza

Una domanda sul film che nella tua carriera rappresenta una sorta di eccezione: Nella valle della violenza. Nonostante si tratti di un western, sembra ci siano alcune scelte stilistiche e registiche che si ispirano proprio alle strutture dell’horror. Ad esempio, il flashback sul passato militarista di Paul (Ethan Hawke) o tutto lo scontro finale del film, che ricorda un po’ le dinamiche degli slasher. Infatti, quando lo sceriffo (John Travolta) parla di Paul ne evidenzia sempre quella sorta di infallibilità terrificante che riguarda i maniaci più famosi, come in Halloween o Venerdì 13. È dunque possibile affermare che gli stilemi del genere horror possono fare da guida anche per le strutture narrative e stilistiche di tutti gli altri generi?

Certo, può essere. Specialmente il fatto che si trattasse di una revenge story fa sì che ci possano essere degli elementi dell’orrore. Ma penso soprattutto alla suspense: quella si traduce efficacemente in tutti i generi possibili. Quindi, nel caso di quel film, presentare il personaggio come qualcuno di effettivamente molto più pericoloso di quanto si creda, creando perciò della suspense attorno alle modalità con cui presto agirà nella storia, crea più tensione, più dramma, soprattutto in una narrazione che ruota attorno alla vendetta. Questo è un modo molto efficace per far funzionare una storia simile.

La fama, l’integrità e la A24

Nella trilogia X, i personaggi inseguono la fama come veicolo per affermare la propria identità e la propria esistenza. Tuttavia, più si va avanti, più sembra che questi personaggi si trasformino in una versione di loro stessi fatta apposta per il successo: infatti, nel mentre, molti pezzi della loro personalità sono andati persi lungo la strada. Personalmente, ritieni che per raggiungere il successo hai avuto bisogno di compromettere parte della tua artisticità o senti invece di aver preservato quell’integrità che ti ha reso una voce fuori dal coro del mainstream, facendo così spiccare i tuoi lavori?

Non lo so, per me è davvero difficile vedere quello che sto facendo da una prospettiva esterna. Sicuramente posso affermare che lavorare a questi tre film con la A24 è stato un piacere, loro sono davvero un grandissimo supporto. Non c’è nulla in questi tre film che sia nato da una dinamica di contrasto, dove io volevo fare una cosa e loro me lo hanno impedito. Molto raramente siamo stati in disaccordo su qualcosa e anche quando non erano pienamente convinti la loro risposta è stata: “se pensi di volerlo fare in questo modo, allora va bene, fallo così.” Hanno molto rispetto per i cineasti con cui collaborano. Inoltre, quando stavo girando questi tre film con loro ero già perfettamente consapevole delle aspettative che avevano, del brand e delle vibe a cui si rifanno. Quindi, nelle mie intenzioni c’era la volontà di lavorare con la A24 senza realizzare qualcosa di totalmente opposto ai loro valori. Se lo avessi fatto, sarebbe stato strano e irrispettoso: “voglio lavorare con te, ma allo stesso tempo voglio anche farti incazzare costantemente!”

In questo senso si tratta di qualcosa che va in entrambe le direzioni, ma loro comunque sono famosi per il grande supporto che danno ai film-maker con cui lavorano. E vivono proprio di questa reputazione. Quindi le cose sono andate così: ho scritto questi film e loro hanno detto “okay!”. Poi qualche volta abbiamo dibattuto sul casting, ma alla fine tutti quelli che sono nel film li ho voluti io. Tutti i tagli di montaggio sono quelli che ho deciso io, perciò mi sento davvero fortunato. Che alla fine questa dinamica si ritorca sull’aspetto puramente commerciale o meno non te lo posso garantire, perché non ne ho la certezza.

Ovviamente questa non è affatto la norma. Se finisci per collaborare con una grande compagnia come la HBO, allora resterai coinvolto in una rete di interessi molto più complessa, che per forza di cose influenzerà il tuo lavoro e gli obiettivi di tutti. Dunque, se decidi di collaborare con una realtà del genere devi essere cosciente delle conseguenze a cui vai incontro, perché ti finanzieranno il film. Ciò non significa che la produzione debba sentirsi a tal punto coinvolta da credere che il film sia più loro che tuo. Ma allo stesso tempo non ha affatto senso mettersi a fare un film che non gli piace affatto: così si crea soltanto una relazione lavorativa disfunzionale.

Un quarto capitolo?

Parlando del tuo futuro e di quello del genere, si specula attorno ad un possibile quarto capitolo, soprattutto dopo che il successo della X Trilogy ti ha posizionato tra gli autori più interessanti degli ultimi anni. Proverai ad alzare ancora di più l’asticella, magari sperimentando con qualcosa di totalmente differente? E se questa è la tua sfida attuale, ti senti sotto pressione o si tratta di un obiettivo che hai avuto fin dall’inizio di questa avventura?

Non so ancora se farò un quarto film così presto. Qualsiasi cosa farò in futuro, spero solo che si tratti di un progetto migliore dell’ultimo e magari anche più grosso. Non so se è giusto parlare di qualcosa di “rischioso”, ma sicuramente non vorrò ripetermi. Quindi non farò nulla che sia come i film della Trilogia, perché ovviamente li ho già fatti. E non penserò assolutamente a quello che si dirà a riguardo, se sarà apprezzato o meno, non mi concerne. Voglio concentrarmi su qualcosa che ancora non ho fatto, che sia più impegnativo dei lavori precedenti. Quello che ho in mente adesso è molto diverso, spero solo che funzioni. Magari in futuro ci rivedremo e ve ne parlerò!

Le funzioni della violenza sullo schermo

Parliamo ora della violenza sullo schermo. Nella tua carriera hai lavorato con temi e stili che negli anni ci hanno abituato a vedere molta violenza grafica. Tuttavia, nella tua filmografia c’è qualcosa di diverso. Parlando nello specifico di MaXXXine, sembra che il tuo approccio alla violenza vada in due direzioni opposte ma complementari: mostrare meno scene che contengono violenza grafica oppure renderla così estrema da apparire surreale. È per caso un modo per dirci che la vera violenza risiede nell’animo e nei valori dei personaggi?

Non necessariamente. Penso che ogni film e ogni scena siano studiati diversamente. A volte vuoi che quella scena sia molto cruda e disagevole, perché per una ragione per l’altra vuoi che abbia un impatto forte sul pubblico. Altre invece preferisci solo che la violenza risulti fortemente catartica, un momento di totale rilascio della tensione accumulata, come nel finale di MaXXXine. E in tal caso è così eccessivo che nonostante tutto non risulta scandalosa per gli spettatori, anzi: diventa un momento che li porta a strappare un applauso di sollievo.

Quindi tutta la questione della violenza grafica da un punto di vista stilistico riguarda la reazione che speri di ricevere dagli spettatori. Anni fa ho realizzato il film The Sacrament, dove la violenza mostrata non aveva affatto un intento spettacolare, mentre Kevin Bacon schiacciato dentro la sua macchina ha un sapore completamente diverso. In entrambi i casi si tratta di violenza grafica, ma le intenzioni che stanno a monte differiscono completamente. Il modo in cui le organizzi dipende esclusivamente dal mood del film.

L’universo femminile e le necessità dell’horror

Ritieni che l’universo femminile sia attualmente lo strumento più adatto per indagare la psiche umana, visto che anche molti altri tuoi colleghi se ne sono serviti nei propri film? Le urla della protagonista sono per caso l’urlo di un’intera categoria contro l’orrore della società di oggi?

Non ci ho pensato molto a questo, perché vedo il mondo diversamente. Ma penso che la questione sia come una medaglia con le sue due facce. Da un lato c’è un senso comune che si lega a una tradizione le cui derive sono spaventose; questo ti fa preferire un film con una protagonista femminile, in quanto molto spesso è vettore di maggiori pericoli rispetto a un protagonista maschile. Dall’altro invece, so che non è una gran risposta, ma ho scritto molti film con un protagonista maschile e che non sono stati realizzati. Nel concreto la questione diventa: questo film è stato fatto e quest’altro no. E poi all’improvviso ti ritrovi a fare tre film di fila che fanno dire alla gente: “ti sei concentrato molto sul mondo femminile!”. Sì, l’ho fatto, ma non mi sono messo a tavolino con questo obiettivo. Si è trattato di una conseguenza.

In generale, storicamente parlando, la risposta alla tua domanda si lega a delle questioni di praticità: le donne veicolano spesso molti più pericoli e paure e in un certo senso facilitano la produzione dei film dell’orrore, dove i rischi più elevati e il brivido sono la componente clou. A volte prendo più riconoscimento per questo aspetto della femminilità di quanto ci sia realmente dietro. Sono consapevole di tutto ciò, ma quando mi siedo e inizio a scrivere un film determinate riflessioni non mi passano affatto per la testa. Ci sono momenti lungo il percorso in cui mi accorgo che certe cose hanno funzionato meglio di altre nel connettermi al pubblico, dunque le sviluppo e le approfondisco. Poi magari nel film successivo faccio cose opposte ma che in quel preciso frangente funzionano di più. Insomma, per fare un film che funzioni bisogna anche saper seguire il flow.

Il film d’exploitation: un evergreen?

L’ultima domanda. Come ha dimostrato anche MaXXXine, il film d’exploitation è sempre criticato e discusso, ma rimane comunque un evergreen. Con la consapevolezza di oggi, ritieni che nel panorama cinematografico si assisterà presto a una nuova Golden Age del cinema d’exploitation, magari più elegante, differente?

Dipende secondo me da quanto le persone avranno voglia di farli. Intendo dire, i film d’exploitation, soprattutto dagli anni ’70 in poi, sono quasi sempre stati produzioni indipendenti, fuori dalla griglia principale. Ed erano fatti secondo modalità che permettevano di coniugare sesso, violenza e altri elementi forti delle storie senza il bisogno di grandi star del cinema o di budget elevati. Si trattava di prodotti da mettere in vendita; usavano gli argomenti più scabrosi per convincere le persone a incuriosirsi e ad andare a vederli al cinema. In fin dei conti si trattava di far discutere attorno al film, di capire quanto potesse essere qualitativamente buono o controverso, perché erano le uniche caratteristiche che potevano garantire un’audience a questi prodotti. Per rifarlo oggi serve un gruppo di persone disposto a usare temi controversi come fonte d’interesse principale.

Ma attualmente non vedo tutto quell’interesse di allora nelle produzioni indipendenti. Tutta la roba che potevi trovare in quei film adesso è sui social media. È finita su Twitch, TikTok e sulle altre piattaforme simili, perché offrono modi molto più brevi e semplici per raggiungere risultati vicini a quelli di allora e per ottenere l’attenzione di un grande pubblico. Non so di persone che ad oggi direbbero: “voglio impiegare un anno della mia vita per fare un film controverso, che sia visto da tante persone, e poi farne subito un altro, sempre low budget, lavorando al di fuori del sistema.” È diventato difficile fare un film del genere, perché ormai tutto è canalizzato in modo preciso. Non ci sono più le produzioni indipendenti. Esistono ancora persone con quella mentalità, ne sono convinto; ma i loro sforzi per distruggere le cose non passano più attraverso il cinema. Non resterei col fiato sospeso, sfortunatamente il nostro momento è passato.

Nella foto Ti West, Mattia Cirilli, Ornella Jumbo e Giacomo Mosca

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