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Approfondimento

Pablo Larraín, un nuovo orizzonte per il biopic

Pablo Larraín è di nuovo in concorso alla mostra d'arte cinematografica di Venezia con "Maria", il film su Maria Callas che chiude un trittico di ritratti femminili memorabili iniziato con "Jackie"

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Negli ultimi anni troviamo il nome di Pablo Larraín, regista e sceneggiatore cileno classe 1976, accostato a quelli che hanno segnato in qualche modo la storia del nostro secolo. Nella sua ultima opera El conde (2023) rispolvera la figura del dittatore cileno Pinochet in chiave grottesca, trasformandolo in un vampiro ingordo dopo avergli dedicato in chiave polemica  i suoi primi lavori, raccolti sotto la trilogia antipinochetiana (Tony Manero, Post Mortem, No-i giorni dell’arcobaleno).

L’attore Alfredo Castro è la costante di quella parte della sua filmografia dedicata al Cile. Un volto tempestato di solchi da cui emerge uno sguardo dolente e umano che riesce a incarnare la storia di un intero paese.

El conde

El conde (2023)

L’instancabile movimento umano dentro una storia che sembra sempre ripetere sé stessa. I film di Larraín sono espressione di questa vitalità, sono conduttori di energia che si genera dagli ideali e passa attraverso i corpi guidati all’interno di una messa in scena meticolosa. Il suo sguardo visionario irrompe nella realtà e la modifica a sua volontà. Nei suoi biopic il didascalismo viene scavalcato dall’introspezione del personaggio che decide di raccontare. Frantuma la statuarietà delle icone, reincarnandole in personaggi fragilissimi, che potranno così di nuovo essere amate sotto una luce nuova, calda e avvolgente.

L’ossessione in personaggi di invenzione

La filmografia di Larraín ha come spartiacque il limite tra realtà e finzione, che spesso si contaminano senza possibilità di distinzione. La musica e l’ossessione sono elementi ricorrenti nell’autore cileno. Il suo primo film, La fuga (2005), racconta di un musicista ossessionato da un’opera non finita e che nasconde un’esistenza parallela di sofferenza e tormento.

Larraín dà qui prova della sua bravura come sceneggiatore costruendo una partitura narrativa stringente su più piani temporali. In Tony Manero (2007) c’è la musica della Febbre del sabato sera, il sogno dorato che si fa spazio in una cornice di violenza e povertà. Nel 2019 Ema, una ballerina di Valparaiso (interpretata dall’esordiente Mariana di Girolamo) incendia il lido di Venezia, con i suoi capelli ossigenati e la sua danza sfrenata.

Ema

Ema è un inno alla libertà totale, un film dove Larraín regala immagini accecanti e sequenze coreografiche palpitanti. Ema vuole essere madre a tutti i costi, lo scambio con il compagno (Gael Garcia Bernal) è esilarante, perchè il cinema di Pablo Larraín è anche un concentrato di più registri. Riesce a passare con estrema facilità dal dramma alla commedia. È sempre attento in questo a non rassicurare troppo lo spettatore.

La rivoluzione del biopic

Neruda (2016) è il primo biopic firmato da Larraín. Un prova a prendermi tra il grande poeta cileno che fugge dalla condanna di esilio emessa dal regime e un ispettore della polizia determinato a seguire le sue tracce. Ancora c’è la Storia che prende il sopravvento. È con Jackie (2016) che il regista mette poi in atto la sua rivoluzione.

Una magnifica Natalie Portman indossa il tailleur rosa firmato Chanel, immortalato dalla cronaca mondiale durante l’omicidio del presidente Kennedy. Una prima scelta operata da Larraín è quella di concentrare il racconto biografico in un arco temporale limitato, in questo caso la vita della first lady Jackie Kennedy i giorni successivi alla morte di suo marito.

Jackie

Jackie (2016)

Un secondo punto di svolta è nella sua scelta di concentrare l’azione in uno spazio limitato e riconoscibile. Jackie è la reggente della casa bianca, il suo regno che aprirà al mondo mediatico. Con il tempo e lo spazio ristretti, non resta che l’interiorità del personaggio, un’introspezione vista raramente nei racconti biografici contemporanei.

Orrore e morte macchiano di rosso il castello dorato mostrato dai media. Lo stesso schema torna in Spencer (2021), dove Larraín rende la residenza di campagna della famiglia reale britannica di Sandringham una casa di fantasmi. Diana deve passare tre giorni lì per le vacanze di Natale.

Spencer fa un ulteriore passo in avanti rispetto a Jackie. Nel film c’è la totale assenza della risonanza storica o mediatica di un biopic. Non ci sono le telecamere, non c’è l’evento storico risonante, c’è solo Kristen Stewart nei panni di Diana. Il suo sguardo in cerca di una via di fuga, il sorriso appena accennato. La macchina da presa segue il ritmo emotivo dei personaggi. I piani sequenza rincorrono le loro fughe disperate, i primi piani la loro estrema fragilità, i campi lunghi e distorti grandangoli mettono in risalto le loro incomparabili solitudini.

Spencer

Spencer (2021)

Editing Sandra Orlando.

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