Un’animazione a forte impatto emotivo è quella utilizzata nel cortometraggio Playing God diretto da Matteo Burani, scritto da Matteo Burani e Gianmarco Valentino, animato e prodotto da Arianna Gheller, in concorso nella Settimana Internazionale della Critica 2024.
In 9 minuti si percepiscono una sofferenza e una solitudine che attanagliano non soltanto il protagonista della vicenda, ma anche lo spettatore completamente risucchiato da un vortice di disperazione.
Una co-produzione Italia/Francia tra Studio Croma animation e Autour de Minuit con il sostegno della Regione Emilia-Romagna attraverso Emilia-Romagna Film Commission, Mic Ministero Della Cultura, CNC Centre National Du Cinema Et De l’Image Animèe.
Qui per l’intervista a Matteo Burani e Arianna Gheller
La trama di Playing God
In un laboratorio avvolto da ombre e disordine, dove misteriose creature d’argilla si accumulano, un tormentato Scultore crea una nuova e ambiziosa opera. Spinto da una visione distorta, decide di abbandonarla, considerandola inadatta e imperfetta. Rigettata come fallimento e circondata dalle voci assordanti delle altre creature, la scultura tenta di seguire il suo creatore, ma finisce per distruggersi.
Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati
Nell’atto di auto-distruzione, trova infine accoglienza tra le altre opere rinnegate, accettando un destino condiviso di emarginazione e disillusione.
La recensione
Un’animazione in tre step che, mescolando vari meccanismi, dà vita a delle immagini verosimili che, insieme alla scelta dei colori e dei suoni, suggeriscono una costrizione alla quale è obbligato chiunque guardi il cortometraggio o ci entri in contatto.
Nonostante non vengano pronunciate parole all’interno del cortometraggio, Playing God riesce a trasmettere una disperazione e un senso di soffocamento incredibile. Lo sguardo del povero protagonista plasmato da colui che si diverta a giocare come Dio è uno sguardo che chiede costantemente aiuto e che cerca disperatamente un conforto che, però, non gli viene concesso.
Come spesso accade nella società reale, avendo caratteristiche diverse rispetto agli altri, viene messo in disparte e additato come il diverso, come qualcuno di cui prendersi gioco, convincendolo ad agire e comportarsi in un determinato modo che non sempre è quello corretto.
Playing God: giocare con Dio o giocare a essere Dio?
Se il cortometraggio sembra tratteggiare una figura irrequieta, insicura e pronta a cambiare pur di ottenere approvazione, ad aleggiare sopra di essa c’è indubbiamente un’entità più grande. È chiaro che ci si riferisca a un Dio in grado di plasmare ogni istante, ma metaforicamente parlando si tratta di un Dio che ha più sembianze. C’è l’uomo scultore (di cui vediamo solo braccia e mani) che concretamente modifica le proprie creazioni d’argilla dando loro delle sembianze sempre più umane, ma c’è anche il regista, braccio e mente in grado di dar vita all’intera vicenda che vediamo sullo schermo e che ha il potere decisionale più forte (potere che alla base viene conferito, che si tratti di religione, di scienza o di altro, da qualcuno).
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Un cortometraggio cupo, ma mai horror
Playing God, con i suoi toni cupi e ruvidi, scava (sia materialmente che metaforicamente) il protagonista e lo spettatore allo stesso modo.
Una scelta di colori, mescolati abilmente a suoni e movimenti, che hanno uno scopo più sentimentale, e conferiscono ai personaggi l’aspetto di creature, quasi di esseri umani. In questo modo e con un’attenzione incredibile ai dettagli si riesce a percepire la loro agitazione e la loro sofferenza.
Playing God è la dimostrazione di come un film d’animazione possa e debba rivolgersi anche a un pubblico adulto, in grado di cogliere tutte le complesse sfumature che le varie tecniche utilizzate in questo contesto hanno generato.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli