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Interviews

‘Bosco grande’ intervista con il regista Giuseppe Schillaci

Sergione, tatuatore cinquantenne di 260 chilogrammi, è da tutta la vita a Palermo, nel quartiere popolare di Bosco Grande ed è il protagonista del documentario di Giuseppe Schillaci nella sezione Notti Veneziane 2024 delle Giornate degli Autori

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giuseppe schillaci

Alle Notti Veneziane 2024, all’interno delle Giornate degli Autori c’è anche Bosco Grande di Giuseppe Schillaci. Bosco Grande rappresenta l’ultimo tassello di una riflessione sulla città d’origine del regista, Palermo, iniziata con i suoi romanzi e i documentari precedenti: Apolitics Now – tragi-commedia di una campagna elettorale (2013) e L’ombra del padrino (2016).

Per raccontare meglio Bosco Grande, il personaggio di Sergio e il rapporto venutosi a creare tra i due, abbiamo fatto alcune domande a Giuseppe Schillaci.

Bosco Grande di Giuseppe Schillaci

Com’è nata l’idea di questo documentario? Ho visto che si tratta di un tema che, in qualche modo, ritorna, come una sorta di seguito delle tue opere precedenti.

Sì, c’è sicuramente Palermo come metafora, un po’ della memoria, dell’anima, poi l’idea degli amori impossibili, sempre molto romantici e con molte tensioni drammatiche, ma anche la questione dell’identità, dell’origine. Palermo (che ho lasciato da diversi anni) è sempre centrale. Da una parte una Palermo che ultimamente vedo più spesso perché i miei ritorni, legati ai miei genitori che sono anziani, sono sempre più frequenti, dall’altra una Palermo segnata dall’incontro con Sergio. L’ho conosciuto tramite le fotografie di Fabio Sgroi, un fotografo che ha lavorato con Letizia Battaglia negli anni ’90 e che era molto conosciuto per l’impegno antimafia. Aveva pubblicato un libro che raccoglieva le sue fotografie e tra queste c’erano anche quelle dei suoi amici punkettoni, questo gruppetto di punk molto provinciale, composto da una ventina di persone che si ritrovava nelle piazze, in una Palermo devastata dalla guerra di mafia, dal coprifuoco, una Palermo con un clima quasi di terrore.

Vedendo queste foto degli anni ’80 mi sono chiesto cosa facessero questi punk di Palermo oggi e ho scoperto che moltissimi erano emigrati. Tutti tranne Sergio che è sempre rimasto lì, come tatuatore e punk storico, figura leggendaria e uno dei primi tatuatori della città. Il suo peso, però, quasi 300 kg, non gli permette di muoversi, motivo per cui sta sempre davanti o dentro casa e tutti passano a salutarlo.

Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati

Quando l’ho incontrato la prima volta è stato amore a prima vista e gli ho detto subito che lo volevo filmare. La cosa che mi ha colpito è che è stato molto diretto, ci siamo guardati negli occhi e abbiamo capito di avere gli stessi linguaggi, la stessa ironia (io ho ritrovato in lui quella di tantissimi amici della giovinezza e dell’adolescenza). Dal giorno dopo sono partite le riprese, durate cinque anni perché lo filmavo ogni volta che tornavo a Palermo.

La sensazione che si avverte in Bosco grande è che vi conosciate da sempre.

In effetti un po’ è così. È come quando ci sono quelle anime che si incontrano, ma di fatto è come se si conoscessero da sempre. Io l’ho visto, mi sembrava un amico da sempre e lui ha avuto la stessa sensazione, perché si è aperto totalmente. Ci sentivamo sempre per telefono, per whatsapp, quella nata è una relazione molto profonda di amicizia reale, sincera, non solo legata alla realizzazione del film.

Una divisione a metà

Un aspetto che mi ha colpito è che il documentario sembra quasi diviso a metà, in due parti. C’è una prima parte dove lui è una sorta di narratore di tutto quello che è successo, e poi c’è una seconda parte dove ti concentri più sulla sua vita, sul suo percorso.

Assolutamente sì. L’idea iniziale era di fare un film su Palermo, ma poi in corso d’opera tutto si è modificato. Bosco grande è un film che abbiamo montato con Felice D’Agostino, un regista calabrese che viveva a Parigi, con cui lavoro già da un po’ e con il quale ho realizzato alcuni film. Con Felice abbiamo lavorato proprio di sottrazione, abbiamo costruito la storia e poi abbiamo decostruito sempre di più e ci siamo resi conto della magia del cinema.

In realtà il nostro montaggio era diventato totalmente cronologico, raccontava quello che è successo negli anni con la vita che prende il sopravvento sull’arte, sulla costruzione drammaturgica. Questo l’ho trovato bellissimo, perché tra l’altro si parla di una persona totalmente punk, ma nell’attitudine, non soltanto nel modo di vestirsi. Sergio è una persona molto diretta, senza costruzioni, senza ipocrisie, molto semplice, a metà strada tra arte e vita. Bosco grande è un racconto mentre si fa, cioè un film che si fa nello svolgersi degli eventi, del reale. Non era neanche voluto all’inizio perché avevamo delle idee di montaggio un po’ diverse, invece tutto si è trovato in un ordine naturale, diretto.

Sergio è un antieroe?

Secondo te si può definire Sergio come una sorta di antieroe? Vedendo il film mi è venuta questa riflessione perché è colui che permette di raccontare il tutto, attraverso il suo essere punk, un tatuatore, addirittura il primo tatuatore e soprattutto attraverso questo peso che lo rende un po’ particolare. All’inizio si può essere distratti da lui e non seguire il resto, però allo stesso tempo forse è l’unico che poteva veicolare determinati messaggi in questo modo. Se ci fosse stato un personaggio più ordinario, più comune, forse non avrebbe reso allo stesso modo.

Sì, assolutamente, c’è questa figura di eroe tragico, antieroe perché magari è autodistruttivo per certi versi, però quasi una figura Cristica.

Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati

Incarnando questa figura Sergio riesce a rendere tutto grande, nel senso che è colui che dà carisma e crea quasi un mito di sé stesso: una leggenda vivente, sempre a Bosco Grande.

In effetti è un personaggio particolare e penso che alcune sue scelte, alcune sue decisioni abbiano influito sul tuo lavoro.

Sì, lui è una persona ieratica e assolutamente profetica anche riguardo la sua stessa vita, con una lucidità assurda, soprattutto considerato anche l’uso di sostanze. Forse è anche un tratto del siciliano, a cui piace sempre sentenziare un po’. E poi lui è un po’ come un eterno bambino, un eterno adolescente.

E infatti si può dire che è un film sulla vita proprio grazie al suo approccio nei confronti di ciò che lo circonda.

La sua ironia, il suo sarcasmo, la sua capacità di ridere di sé stesso, di ridere di tutti, di coinvolgere tutti in una grassa risata, in questa grande abbuffata che non finisce mai sono il motore di Bosco grande. Poi, certo, possiamo criticarlo a livello morale, etico, ma il messaggio che vorrei passasse è quello di una persona aperta agli altri, generosa e soprattutto capace di ridere delle sofferenze, dei suoi traumi. Per questo e per questa capacità salvifica prima parlavo di figura quasi Cristica, perché c’è questa idea del sacrificio. Anche se, essendo un punk, nichilista, non c’è una causa superiore, però sicuramente c’è questa capacità di vivere fino in fondo, questa voglia di dare agli altri questa idea.

Un aspetto che ho notato essere ricorrente in Bosco grande, non so se per tua volontà o perché è una caratteristica di Sergio, è il fatto che ci sono molti momenti in cui canta.

Sì, lui adora cantare e la dimensione della canzone, del cantare coinvolgeva tutti i personaggi del film. Tra questi soprattutto Fabrizio, il suo più caro amico che è un cantante di rockabilly nel gruppo Jackie and his Loaders.

In realtà c’erano tantissime altre scene di canto, perché di fatto la voce coincide con il corpo, soprattutto quando si è immobili. E quindi la sua voce è il suo modo di esprimere la felicità o di annegare le tristezze, ma anche e soprattutto di essere con gli altri, perché quando canti stai facendo uscire fuori qualcosa, è un’emissione di vibrazioni e una volontà di stare al mondo.

Però, sì, la canzone è come una chiave per esorcizzare il male, per buttarlo fuori, per trasformarlo in musica.

Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati

Giuseppe Schillaci e Sergio

Un’altra riflessione è in merito al rapporto che c’è tra voi. C’è proprio un’interazione, ci sono degli interventi con lui che a volte parla con te. C’è un momento, per esempio, dove ti chiede se sarai anche te nel film, quindi è ancora più metacinematografico. Forse si entra ancora più in sintonia con lui in questo, siamo coinvolti anche noi.

Sì, assolutamente. Questo non è il mio primo film e avevo quindi un’idea ben precisa di come girare. Poi mi piace sperimentare e cambiare dispositivi, provando forme nuove. Adoro tutte le forme del documentario perché sono forme molto libere di scrittura cinematografica. Con Sergio, però, la forma si è imposta da sé, è lui che l’ha proposta e anche imposta, ma io non mi sono mai sognato di metterla in discussione: era naturale così.

A lui piaceva parlare alla camera, parlare con me, avere delle relazioni in cui la camera non esisteva a volte. E infatti nelle note di regia ho voluto aggiungere, oltre al mio nome Giuseppe Schillaci, il fatto che lui è una specie di co-regista, perché è lui che sceglieva la forma. Io mi sono limitato ad accendere la camera, ad ascoltarlo e a raccogliere questa storia. Io adoro il cinema alla Wiseman e tutto il cinema d’osservazione in generale, ma non volevo imporre niente, soprattutto a un corpo che è immobile, quasi sempre. Questo è anche un suo modo di comunicare. Io sono l’altro e questo è già un dialogo con la camera; ogni film dovrebbe essere questo, però capisco chi vuole essere quasi assente.

Fa molto più cinema di finzione. In questo tipo di documentario con lui non ho sentito nessuna esigenza di dare una forma definita, tranne il quadro. Lui è il protagonista in assoluto, ma anche gli altri sono molto importanti nel dipingere questo quadro, nell’orientare, nel dare una direzione che è quella del film, cercando di far capire anche che è un film d’autore. Da questo punto di vista lui si è fidato totalmente, ha visto dei miei film precedenti, gli sono piaciuti, nonostante la sua cultura cinematografica fosse diversa (Pulp Fiction, Fight Club). Lui si è affidato totalmente a me e io a lui. Ed è stata molto bella questa relazione, anche umanamente si è creata una complicità che ha portato a fare veramente il film insieme.

Poi una cosa che tengo a sottolineare è che abbiamo dovuto lavorare su una cifra molto minimalista per cercare di lasciare tutto lo spazio, anche sonoro, a Sergio e alla sua storia, senza aggiungere eccessivo pathos. Quindi è stato un lavoro che alla fine si traduce in pochissimi minuti di musica composta grazie a Gianluca Cangemi, ma in realtà, a livello di riflessione, è stato molto lungo e molto complesso.

E in parallelo penso sia stata complessa anche la scelta delle foto, dei documenti d’archivio che si vedono, soprattutto nella prima parte, per raccontare quel background di cui dicevamo.

Sì, anche quella con piccole punte di magia. Perché ho visionato un filmato da una cassetta, che sembrava essere andata perduta, di un concerto dell’87. Lì dentro c’era Sergio, a più riprese.

giuseppe schillaci

Immagine gentilmente concessa da ufficio stampa. Tutti i diritti riservati

La scelta del titolo

Dopo tutto quello che mi hai detto mi viene da pensare che Bosco grande è un titolo anche metaforico.

Assolutamente. Ti confesso che ho cercato, nel tempo, anche durante il montaggio, un altro titolo, perché mi sembrava che questo non desse molta importanza e centralità a Sergio. Ma tutti gli altri titoli non mi piacevano, sono sempre ritornato a Bosco Grande, perché, come dici tu, è metafora. C’è già la parola grande, che è molto bella, e poi il Bosco è comunque anche una metafora, dei fantasmi, delle ombre, delle paure…

E poi questo è un quartiere invisibile di Palermo, perché nessuno lo conosce tranne i suoi abitanti storici, per cui c’è questa idea di un luogo utopistico, di un luogo che in realtà non esiste. Se tu chiedi a un palermitano qualsiasi dov’è il quartiere di Bosco Grande nessuno lo sa. Mentre gli abitanti storici del quartiere sanno che quello lì, quelle quattro viuzze, è un piccolo rione storico che si chiama Bosco Grande (perché c’era la via principale che si chiamava via Bosco Grande prima del fascismo).

Queste quattro viuzze, popolari, vivono una vita quasi nell’ombra, come in un bosco effettivamente, fatto di piccole relazioni, di solidarietà, di miseria anche, e sono proprio accanto, attaccate a Via Libertà, che, invece, è il centro borghese/alto borghese della città. Per cui mi piaceva anche questo mistero intorno al titolo, perché in qualche modo è metafora di lui e rende conto di lui che incarna il quartiere, che incarna la città. Anche senza dire il suo nome, Bosco Grande è lui.

Le aspettative di Giuseppe Schillaci

Il film sarà a Venezia. Quali sono le tue aspettative per questa presentazione, per il fatto che il film arriverà a un pubblico sempre più grande e più vasto?

Sono molto felice e contento di essere a Venezia, anche perché due anni fa l’ultimo mio film era stato selezionato, ma poi per questioni di anteprime è stato tolto dalla selezione.

Tornarci due anni dopo con questo film per me è molto bello, sono molto contento, anche perché credo molto in questo film, è un pezzo di cuore che ho vissuto a fondo, con tutti i personaggi e con Sergio. Sono contento che si conosca questa storia perché Sergio ha fatto di tutto affinché non rimanesse nell’ombra, nel sottobosco. È un corpo abnorme che, in qualche modo, dà fastidio, un corpo che, per alcuni, può essere anche mostruoso, ma che lui indossa quasi con classe, con bellezza.

Sono molto contento che il film abbia questa risonanza internazionale a Venezia e spero che continui a girare nei festival, che abbia una distribuzione in Italia perché è un piccolo film. Il film è prodotto dalla società francese Wendigo Films in coproduzione con France Télévisions. Bosco grande è veramente un lavoro di sacrificio, di amore per il cinema, di amore per le persone, per il mondo, anche con le persone che appaiono meno. Spero che ci sia un effetto valanga di questo piccolissimo film, che anche in Italia abbia una risonanza, perché penso che lo meriti questo personaggio fuori dall’ordinario.

E poi di fatto parla a tutti, ha un carattere assolutamente universale che spero che qualsiasi spettatore, anche in Cina, a Taiwan o dall’altra parte del mondo, possa in qualche modo aderire a livello emotivo.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

Bosco grande

  • Anno: 2024
  • Durata: 77'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Francia, Italia
  • Regia: Giuseppe Schillaci

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